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domenica 25 dicembre 2011

SARKOZY E IL GENOCIDIO ARMENO, di Pier Francesco Zarcone


Quando si dice il tempismo ...
In una fase della politica internazionale in cui l’urgenza della questione turco/armena è praticamente a livello zero, l’Assemblea Nazionale francese ha approvato una legge che configura come reato il negazionismo del genocidio armeno compiuto dal governo ottomano dei Giovani Turchi durante la Prima guerra mondiale. Per chi pubblicamente sostenga che il massacro non arrivò a configurare un genocidio sono previsti un anno di prigione e 45.000 euro di multa. Si aspetta che il Senato approvi a sua volta, e sicuramente così sarà.
Poiché ciò avviene in un momento in cui le due parti in causa – Turchia e Armenia – sono impegnate in un processo, sia pure lento e faticoso, volto a instaurare rapporti reciproci definibili “normali”, è ovvio che ci si interroghi sul reale significato dell’iniziativa insieme a un minimo di chiarimento sul retroterra storico delle vicende implicate.
Ma prima ancora è utile spendere due parole sul nazionalismo e certi suoi effetti. Laddove infatti il nazionalismo ha operato all’interno di ambienti multinazionali, o multietnici che dir si voglia, il massacro del diverso ha sempre costituito la tragica “normalità”. Esempio: quando l’Impero ottomano fu espulso dai Balcani – a cominciare dalla Grecia ai primi dell’800 e per finire con la guerra balcanica all’inizio del nuovo secolo – la plaudente Europa dell’epoca omise di porsi il problema della sorte degli islamizzati locali (tutti inglobati, artificiosamente, nella categoria dei “turchi”, e quindi da esecrare) a seguito della vittoria “cristiana”: la risposta è semplice: fu l’apoteosi del massacro e del forzato esodo dalle proprie case e dai propri luoghi di origine. Tant’è che oggi – Albania e Bosnia a parte – di “turchi” lì ne è rimasta solo una sparuta rappresentanza.


La Turchia  ottomana e la questione armena
L’incontrovertibile dato di fatto è che gli Armeni dell’Impero ottomano furono vittime dello scontro violentissimo fra un nazionalismo virulento ma debole – il loro – e un nazionalismo montante e virulento ma forte – quello turco. La questione va inquadrata tenendo conto del fatto che uno dei fattori di maggiore incidenza per la disgregazione del plurisecolare e vastissimo Impero di Costantinopoli fu l’emergere del nazionalismo fra le sue popolazioni cristiane (peraltro fra di loro tutt’altro che unite, anzi ostili) favorito dall’imperialismo anglo/franco/russo. Buon ultimo, ma non meno violento, fu il formarsi del nazionalismo turco (senza il quale tra l’altro non si spiega l’allentamento dei rapporti fra il Sultano/Califfo e parte delle popolazioni arabe dell’Impero).
A differenza di Greci, Serbi, Bulgari e Rumeni, gli Armeni – quando cominciarono a ostilizzare l’Impero ottomano – si trovarono avverse due situazioni particolari: non disponevano di alcuna regione in cui fossero maggioritari; non trovarono, anche per questo, nessuna potenza europea che, al di là del fatto di strumentalizzarli, fosse disposta ad aiutarli davvero. La stessa Russia zarista, che più di tutti gli altri Stati pareva in qualche modo favorirli, in realtà voleva solo espandersi nel Caucaso e verso l’Anatolia orientale, e con il suo altalenante aiuto in realtà fece agli Armeni un dono avvelenato: trattandosi di un secolare e tenace nemico dell’Impero ottomano, dette al governo del Sultano il facile destro di additarli come traditori. Naturalmente si susseguirono le atroci rappresaglie reciproche in cui si ebbero - come sempre accade in casi del genere - armeni vittime innocenti e armeni carnefici di innocenti. Lo stesso dicasi per i turchi, con i loro criminali e le loro vittime delle rappresaglie e del terrorismo di armeni.

Fu genocidio o no?
Con la Prima guerra mondiale e l’intervento ottomano al fianco di Germania e Austria/Ungheria, non vi era dubbio che la questione armena assurgesse a problema di sicurezza del fronte interno; problema che i due veri padroni dell’Impero – Enver Pasha e Talaat Pasha – pensarono di risolvere con una specie di “soluzione finale” ante litteram, fatta di indiscriminati massacri sul posto e deportazioni verso la morte.
Il non essersi trattato di uno sterminio sistematico, e quindi totalizzante, costituisce uno degli argomenti dei turchi che negano l’accusa di genocidio. A questo riguardo va detto subito che entrare nelle sabbie mobili dell’esegesi giuridica del concetto di genocidio secondo il diritto internazionale è perfettamente inutile ai fini morali (ché ormai di questo solo si tratta), poiché ognuna delle tesi in campo è argomentabile. Resta tuttavia il fatto che si trattò di un massacro di enormi proporzioni; che tale resta al di là del balletto delle cifre contrapposte presentate dalle parti in causa – giocando al ribasso estremo il governo turco (500.000 morti, in buona parte attribuiti a combattimenti e alle deportazioni) e al rialzo estremo le fonti contrapposted (1.500.000 morti).
Immediatamente dopo la fine della Grande guerra il governo del Sultano – sia pure obbligato dalle potenze vincitrici – iniziò a processare i responsabili, ma si trattò di un corso giudiziario presto interrotto dagli sviluppi della storia turca di quel periodo: cioè la reazione turca ai piani di smembramento dell’Anatolia, concepiti da Francia e Gran Bretagna, che trovò i punti di forza nel genio politico/militare di Mustafà Kemal Pasha e nella non-distrutta rete organizzativa dei Giovani Turchi, e alla fine la sua vittoria travolse anche il governo del Sultano. A quel punto la questione armena – con una Repubblica Armena inserita nell’Urss – andava archiviata per vari motivi: non rientrava fra le urgenze della nuova Turchia repubblicana; non conveniva affatto ai Giovani Turchi che si erano riciclati come kemalisti; e in più contro gli Armeni si era dovuto combattere dopo il 1918 per riconquistare i territori dell’Anatolia orientale che le potenze vincitrici avevano attribuito all’Armenia indipendente.

La Turchia contemporanea e la questione armena: ovvero, la questione turca
Notoriamente, parlare di genocidio armeno ancora oggi provoca in Turchia reazioni trasversali assai negative. Ragion per cui quanti non-armeni affrontano l’argomento con questa veste giuridica, non possono negare di voler provocare la reazione turca. C’è da chiedersi per quale motivo il governo turco reagisca in questo modo, mentre sarebbe probabilmente diversa la reazione di un discendente di Gengis Khan o di Tamerlano.
Cercare di capire rende ineludibile fare un passo indietro, per individuare in primo luogo la possibile base del nazionalismo turco - che portò prima al massacro degli armeni e poi alla creazione della Repubblica Turca dal carattere laico – e poi le ricadute psicologiche, vuoi naturali vuoi indotte, di una serie di vicende del passato.
Riguardo alla prima questione ci troviamo alle prese con un problema globale la cui risposta va però costruita. Infatti, se prescindiamo dalla residua minoranza turcomanna, nell’attuale Anatolia la ricerca del “turco” etnico è estremamente difficoltosa: basta confrontare i volti di Mustafá Kemal e di un turcomanno i cui antenati non si siano molto mescolati con membri di altre etnie dell’Impero ottomano per dubitare della turchicità etnica di Kemal e vedere in lui uno slavo ottomanizzato.
In realtà il cosiddetto “turco” moderno va identificato come tale su basi linguistico/culturali ma intrecciate al fattore religioso (cioè l’Islam). Tant’è che – laicità a parte – quando nel primo dopoguerra Eleftérios Venizelos e Kemal, al fine di chiudere il contenzioso greco/turco sulle minoranze, decisero lo scambio di popolazioni, che criterio usarono per stabilire chi fosse turco e chi greco? Quello religioso, e non quello linguistico! Con la tragicomica conseguenza, dall’oggi al domani, di greci (cioè cristiani) che parlavano solo turco finiti in Grecia e turchi (cioè islamici) che parlavano solo greco finiti in Turchia.
La conclusione è che lo Stato “nazionale” turco – non potendo prescindere dall’avere al suo interno una popolazione “alquanto” composita – ha assoluto bisogno di un cemento unitario di base che non può non essere l’Islam, non essendocene altri disponibili, e a cui poi si aggiunge l’unicità linguistica turca. Da qui – sia detto per inciso – il sorgere dell’annosa e irrisolta questione curda.
Circa la predisposizione psicologica, poi, vi è da fare una considerazione preliminare su un dato oggettivo: dopo il prodromo del massacro degli islamizzati di Grecia negli anni ’20 dell’800, la fine di quel secolo è stata teatro di una serie di atrocità, massacri ed esodi a danno degli ottomani islamici, oltre che di perdite territoriali e umiliazioni internazionali. Da qui il rinchiudersi ombrosamente in se stessi, il fare del detto “l’unico amico del turco è turco” un dogma politico, e l’esigenza di definire e difendere la propria identità circondandola di autostima. Autostima che viene colpita dagli attacchi – quand’anche non infondati – di nazioni straniere la cui specializzazione in massacri ha riempito le pagine della Storia e continua a essere esercitata.

Mentre gli interessati si sforzano di dialogare ...
Ovviamente irrigidirsi dall’esterno nell’imputare ai “Turchi” – in modo indifferenziato storicamente e collettivamente - il massacro degli armeni durante la Grande guerra serve solo a irritare il governo di Ankara senza apportare alcun beneficio proprio all’Armenia. In più questa crociata dall’esterno – oltre a implicare apoditticamente l’immutabilità delle identità collettive e a voler corresponsabilizzare i contemporanei per crimini compiuti da generazioni del passato – non tiene conto del fatto che a doversela vedere con la Repubblica turca di oggi è l’attuale Repubblica armena, ben più degli armeni della diaspora (ormai radicati in altri paesi a prescindere dalla conservazione di tradizioni proprie). Molto meglio sarebbe lasciare a sbrogliarsela i diretti interessati: cioè Ankara e Erevan.
Su questo versante i segnali positivi non mancano affatto, quand’anche non siano stati ancora ratificati i protocolli turco/armeni di Zurigo dell’ottobre 2009, volti ad avviare la normalizzazione dei reciproci rapporti. Da sottolineare il fatto che in Turchia l’impulso alla normalizzazione della questione armena (come pure di quella curda) proviene dal partito islamico al potere, mentre l’ostilità (in ambedue i casi) è dei socialdemocratici e dei kemalisti: cioè del fronte laico.

... arriva Sarkozy a guisa di novella Giovanna d’Arco, ma per fini propri
Non pago di un precedente pronunciamento (nel 2001) del Parlamento francese che aveva qualificato come genocidio il massacro degli armeni, Sarkozy ha fatto riaprire ora la questione, a ciel sereno, con la criminalizzazione legislativa del relativo negazionismo. Che all’attuale Presidente francese non importi nulla degli armeni massacrati quasi un secolo fa, è fuori discussione. Semmai sono più interessanti gli armeni vivi di oggi. Infatti mediante questa mossa Sarkozy cerca di prendere i classici due piccioni con una fava.
In primo luogo si fa bello agli occhi della minoranza armena di Francia soddisfacendone un’antica aspirazione e, ci si può scommettere, con questo si garantisce il loro pacchetto di voti per le prossime presidenziali, cioè per la lotta all’ultimo suffragio che lo opporrà al candidato socialista (o presunto tale). Non è casuale che la proposta di legge sia venuta da una deputata marsigliese (del partito di Sarkozy), giacché a Marsiglia vive una consistente comunità armena.
Inoltre – poiché il candidato socialista quand’anche fosse vincente alle presidenziali sicuramente non avrebbe la possibilità di far emettere dal Parlamento francese un deliberato di segno opposto – Sarkozy concretizza anche un proprio intento non recente: mettere una poderosa pietra d’inciampo sulla via delle residue aspettative di Ankara per l’ingresso nell’Unione Europea.
Ankara ha reagito subito richiamando il suo ambasciatore in Francia e sospendendo visite bilaterali e cooperazione politico/militare. Tenuto conto del persistere di interessi francesi nel Levante, ai quali si contrappone il vigoroso riemergere della Turchia come potenza regionale, sicuramente si prospettano sviluppi di un certo interesse.


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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.