L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

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martedì 11 marzo 2014

THE WOLF OF WALL STREET (Martin Scorsese, 2014), di Pino Bertelli

“Che cos'è la proprietà? La proprietà è un furto; non perché sia frutto di appropriazione violenta, bensì chi la detiene, ne fa uso a proprio vantaggio e a danno della collettività... Il governo dell'uomo da parte dell'uomo, sotto qualsivoglia nome si mascheri, è oppressione; la più alta perfezione della società si trova nell'unione dell'ordine e dell'anarchia...
La distinzione tra banchiere e usuraio è puramente nominale... 
Noi non vogliamo alcuna partecipazione dello Stato nelle miniere, nei canali, nelle ferrovie….
Tutto deve essere affidato ad associazioni di lavoratori democraticamente organizzate,
le quali operino non sotto la costituzione e la vigilanza dello Stato, ma basandosi sulla propria responsabilità”.
Pierre-Joseph Proudhon (1840).

I. La fogna di Wall Street e i  barbari della Borsa

Parte prima. Rapinare una banca non è meno immorale di fondarla, diceva. La fogna bancaria di Wall Street (la più potente mafia della terra) e i barbari della Borsa (colpevoli di saccheggiare, profanare, violentare l’intera umanità...), sono oggetto di un film piuttosto convenzionale, The Wolf of Wall Street (2014) di Martin Scorsese. Va detto. La critica italiana (come sappiamo la più servizievole del “tappeto rosso” (abatini che hanno molto studiato e poco compreso del cinema e delle sue false meraviglie), quasi all’unisono ha chiosato al “capolavoro”... le stellette sono state copiose, Scorsese e Leonardo DiCaprio eletti a depositari dell’arte cinematografica di quella “fabbrica per salsicce” (Erich von Stroheim) che è Hollywood. E pensare che ci sono stati dei geni dello schermo del disinganno (Robert J. Flaherty, Erich von Stroheim, Orson Wells o John Cassavetes) che per aver minato alla radici la macchina/cinema, hanno pagato con l’ostracismo, l’esilio o il discredito la loro insolenza poetica... gli accademici poi li hanno imbalsamati nei libri di storia del cinema e lì sono morti.

Un’annotazione a margine. I venditori e dispensatori di celebrazioni televisive da esaltati o esteti smarriti della società dello spettacolo... sono gli stessi adulatori di un film italiano (La grande bellezza) che ha fatto incetta di premi internazionali (Oscar e Golden Globe 2014, BAFTA, European Film Awards, cinque Nastri d’Argento)... il pubblico lo ha premiato con un’affluenza d’altri tempi... giornalisti, presentatori, politici, perfino il primo ministro (con la faccia un po’ tonta da imbonitore da sagra toscana) di questa italietta catto-totalitaria (inclusa la sinistra al caviale), hanno gridato all’evento artistico e rinascita del cinema italiano. Vero niente. Tutta questa allegra brigata di estimatori di La grande bellezza, sembrano non sapere che ogni apologia non è che l’assassinio del vero, del giusto, del bello, per eccessivo uso dell’entusiasmo. È impossibile conciliare l’onnipotenza del mercato (non solo cinematografico) con la libertà, il rispetto, la solidarietà degli ultimi, degli esclusi, degli offesi... l’ossessione del successo impera e quando ogni opera d’arte è esclusivo possedimento delle banche, della politica o dei mercati, c’è un po’ più dolore nel mondo.
Noi confermiamo qui ciò che avevamo affermato all’uscita del film di Paolo Sorrentino: “La grande bellezza figura la fisionomia di un fallimento, quello della pretenziosità sulla quale il regista ha fondato il culto di se stesso, più ancora è un casellario di nozioni cinematografiche dove si santificano i funerali del cinema che vale e tutto si degrada in ripetizioni inutili, in un cattivo edonismo che è il pretesto per giustificare scenari o esercizi di stile dove la bellezza e la giustizia sono calpestate nel fervore di diventare santi, martiri o eroi di un mondo di celluloide (o digitale) che non merita essere difeso, ma aiutato a crollare”. A un certo grado di distacco e di frequentazione di sale cinematografiche, come di taverne di porto, lo spettacolo (di ogni genere comunicazionale) non ha più corso... rompere le apparenze significa rigettare l’idolatria e le illusioni che ne derivano. È per questo che preferiamo stare in compagnia di qualsiasi illetterato o ubriaco di sogni, che frequentare la “crema intellettuale” delle terrazze Martini di Milano o dei salotti-bene di Roma.
Ciascuno è figlio delle proprie affermazioni, e come gli affamatori di Wall Street si vestono Armani, così sognano (in tanti). I cinematografari (politici, preti, imprenditori e forse anche la classe operaia allo sbando sindacale) sanno bene che lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini: “Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza” (Guy Debord)[1]... e persino i criminali dei regimi “comunisti” (Russia, Cina, ecc.) sanno che lo spettacolo è il Capitale a un tal grado di accumulazione, manipolazione, ingerenza o domesticazione dei popoli assoggettati, da divenire immagine. Milioni di persone sono state gettate nella miseria dalle banche e una cosca di bastardi si è ancora più arricchita... la giustizia sociale è calpestata ovunque e solo la lotta profonda, radicale, a volto scoperto delle giovani generazioni può rovesciare la disuguaglianza planetaria e stabilire i principi fondamentali dei diritti umani, libertà e uguaglianza necessari per la conquista di una democrazia partecipata, consiliare o diretta.
The Wolf of Wall Street è un’operazione commerciale da 100 milioni di dollari... al 2 marzo 2014 il film ha incassato nel mondo circa 340 milioni di dollari... le riprese sono iniziate l’8 agosto 2012 e terminate nel gennaio 2013... le ambientazioni si sono svolte negli Stati Uniti (New York, New Jersey, White Plains, Closter, alcune scene sono state girate in Italia, tra Portofino e le Cinque Terre)... la vicenda è quella ispirata al biografia di Jordan Belfort (Il lupo di Wall Street)[2], uno dei più spudorati caimani della finanza internazionale. Belfort è nato nel Bronx (1962), in una famiglia ebraica. Si laurea in biologia all’American University di Washington e inizia la sua ascesa a Wall Street presso la banca americana L.F. Rothschild, fino al crollo finanziario del 1987 (denominato il lunedì nero).
Nel 1990 fonda una società di brokeraggio (la Stratton Oakmont) che vende per telefono azioni (penny stock) di piccole società destinate all’insuccesso... inganna i piccoli investitori e si appropria di montagne di denaro... arriva ad impiegare fino a 1000 agenti di borsa e fatturare oltre un miliardo di dollari... conduce una vita da star... compra Ferrari, elicotteri, puttane d’alto bordo... l’infatuazione per le droghe lo porta sull’orlo della follia... nel 1998 il FBI lo incrimina per frode e riciclaggio di denaro... collabora con i federali, trascorre 22 mesi in prigione ed è costretto a rimborsare le 1513 persone che ha truffato (per un totale di 11 milioni di dollari), anche le sue proprietà (per un valore di 10 milioni dollari) sono confiscate.... quando esce dal carcere si esibisce sui palcoscenici statunitensi come motivatore sacerdotale per fare soldi[3]. Il lupo di Wall Street non è mai stato lupo, lo ha potuto sembrare, perché il balzo nell’estasi del potere è possibile là dove l’ottimismo dei vinti non chiede conto — con ogni mezzo necessario — ai giannizzeri della finanza delle loro ladrerie.
I guasti della crisi sociale, crisi ecologica, crisi democratica... sono una conseguenza di decenni di liberismo studiato da una minoranza di arricchiti a spese dell’impoverimento dell’intero pianeta. La paralisi indotta della politica è assicurata... sono i tecnocrati e il mercato che fanno le leggi e non ci sono né destre né sinistre che tengono... non si è mai avuta così tanta produttività e nemmeno così tanta disoccupazione... la delocalizzazione priva molti paesi di regole sociali, etiche e ambientali e occorre fermare la speculazione delle banche (e il servaggio della politica) prima che questi criminali impuniti possano ancora produrre guerre, diseguaglianze e povertà. Il lavoro non è una merce e non potrà mai esservi felicità là dove non si sviluppa un’economia sociale e solidale. “L’economia sociale e solidale mira a produrre e distribuire più equamente la ricchezza, a stimolare un progetto economico che sia più rispettoso delle persone, dell’ambiente e del territorio. È un’economia che unisce anziché dividere, che ha già dato prova di efficienza e che può svilupparsi in tutti i campi”  (Pierre Larrouturou)[4]. La disperazione, l’opportunismo e il volto umano della globalizzazione che fuoriescono dai mercati finanziari sono protagonisti di un’indecenza inaudita (che va disvelata, svergognata, aggredita), figurano il trionfo dell’avidità e contengono lo spettacolo di una civiltà senza domani.
Il successo al cinema, come nella vita, è sempre sospetto... i parassiti dell’arte di comunicare e i politici (o i prelati) dell’ordine costituito non lasciano niente all’improvvisazione o all’ispirazione... solo i poeti del colpo di mano si salvano dal nulla... non c’è pensiero vivo, autentico o fecondo che ha inciso sul reale senza prima avere gettato alle ortiche la memoria storica che aveva assimilato... è la coscienza resistenziale che interviene nei nostri atti pubblici e privati, e la coscienza è una perpetua messa in discussione della vita autentica che respinge ogni fatalità. L’essenza dell’uomo è la verità, l’essenza della verità è la rivolta libertaria.

II. The Wolf of Wall Street

Parte seconda. The Wolf of Wall Street è una commedia, che molti hanno confuso con una brillante analisi antropologica sull’avidità del sistema bancario che domina il mondo... vero nulla. Martin Scorsese (regista ampiamente sopravvalutato sin dagli esordi, autore, dicono, di almeno tre capolavori: Taxi Driver, 1976; Toro scatenato, 1980; Quei bravi ragazzi, 1990; e forse Toro scatenato è davvero un grande film), architetta The Wolf of Wall Street su diversi piani... contamina la commedia con elementi del musical, più ancora, infilza nel film lunghe sequenze d’impianto attoriale tipiche dell’imbonitore televisivo... DiCaprio, risulta a tratti quasi ridicolo e gli attori di contorno non lo sono di meno... il cammeo di Matthew McConaughey (premiato giustamente con l’Oscar come migliore attore per il film Dallas buyers club, 2014) è addirittura così forzato da scadere nella macchietta di costume. Non c’è storia che non sia scritta da uomini che la storia non ha fatto fuori.
Il film. Alla fine degli anni ’80, Jordan Belfort è un broker (procacciatore d’affari), in seguito ad un crollo finanziario della Borsa, viene licenziato e passa dalla banca L.F. Rothschild a un call center... di lì a poco, insieme a un amico (Donnie Azorf) e una banda di spacciatori di droga... fonda l’agenzia di brokeraggio Stratton Oakmont... si specializzano in truffe bancarie, in poco tempo si arricchiscono e sono oggetto dell’attenzione dei media (la rivista Forbes pubblica un articolo contro Jordan, ma al contempo lo investe di sensazionalismo). Jordan diventa cocainomane, morfinomane, megalomane, onanista... costruisce il suo regno sull’estorsione, l’imbroglio, la contraffazione... in una sola operazione finanziaria condotta a spese di un grande produttore di scarpe, guadagna 22 milioni di dollari e trasferisce il ricavato delle sue rapine in conti truccati svizzeri (a nome della zia Emma). Un’inchiesta del FBI spedisce in galera il banchiere svizzero (che lo proteggeva) e Jordan... per salvarsi il culo da venti anni di reclusione Jordan denuncia i suoi collaboratori... ottiene una pena di 36 mesi e quando esce diventa uomo-spettacolo sulle strategie di vendita. Fine di un’inizio. L’oracolo continua.
L’esuberanza di Belfort (DiCaprio) è forgiata sul compiacimento... la macchina da presa di Scorsese lo incastona in modo quasi febbrile nel suo esibizionismo ed è funzionale al film quanto all’immaginario reverenziale che molti hanno verso quel covo di serpi che è Wall Street. I comportamenti ossessivi, vagamente impudici, anche grotteschi del personaggio, tuttavia lo spostano verso la simpatia del pubblico... c’è perfino un miracolo... quando una tempesta investe il suo yacht e lui e la sua adorata famiglia sopravvivono a un’onda alta quanto la muraglia cinese. Molte sequenze sono fuori misura... il cinismo e il profitto personale fuoriesce dallo schermo in maniera accattivante... anche le sequenze dove Belfort è offuscato dalla droga sono simpatiche (girate con la leggerezza della commedia giovanilistica)... il nudo piacevole (DiCaprio però non ha nemmeno un bel culo), donne e uomini si lasciano tentare da fantasie erotiche estreme, ma ogni cosa è di un finto patinato che oscilla tra le pagine di Play Boy e le aberrazioni sessuali della santa romana chiesa.
Tra i produttori si leggono Scorsese e DiCaprio... che bene sanno come confezionare un film a misura di un pubblico planetario avvezzo alla mediocrità spettacolare della “scatola delle illusioni”. La sceneggiatura (tratta dall’autobiografia di Belfort) di Terence Winther, affastella luoghi comuni e inclinazioni al fotoromanzo televisivo. La fotografia di Rodrigo Prieto è tutta giocata sulla fascinazione del formato anamorfico[5] che, specie in esterni, configura al film una sorta epopeica della ricezione, ma nella sostanza risulta manichea o falsa. La musica di Howard Shore è spalmata quasi in ogni sequenza e fa da supporto estetizzante ad un montaggio (Thelma Schoonmaker) quasi da film western, che nulla c’entra o poco con la mancata drammaticità del film. La catenaria di attori... DiCaprio, Margot Robbie, Jonah Hill e tutti i comprimari... sfoderano una sequela di vezzi, mossette, eruzioni verbali che lasciano nello spettatore attento alla struttura filmica, qualcosa che ha a che fare più con la chiaccihera psicoanalitica (alla Woody Allen, per intenderci), che con un dramma sociale. La macchina da presa di Scorsese è abile... si muove addosso agli attori quasi a sorreggerli e incastona inquadrature deliranti (le feste, gli amici che si drogano, la moglie di Belfort) a godute visioni di New York... da dimenticare. Meglio andare a fare l’amore su una spiaggia o scolarsi qualche bicchiere di vino buono con un amico, in un’osteria di periferia.
The Wolf of Wall Street, più di ogni cosa, afferma la tolleranza del potere (anche se sembra denunciare il contrario), la possibilità che tutti possono diventare lupi (o leoni, questo era il marchio della società di Belfort), e c’è una benevolenza del sistema bancario che se da un lato stritola chi non è all’altezza di efferate violenze, dall’altro lascia sempre un posto aperto a nuovi complici dell’autocrazia finanziaria. Un po’ di galera, un’autobiografia di successo e un ruolo di intrattenitore mediatico non si possono negare a nessuno, se poi questi è stato un famelico affamatore di migliaia di persone e ha fatto qualche mese di galera, la pena è saldata e l’ingiustizia cancellata. Bagatelle per un massacro, diceva... ma è un motto di spirito... la politica della restaurazione è la condizione necessaria per la sopravvivenza della civiltà dello spettacolo... la soggezione, la sua sostanza... essere compresi è una vera sfortuna per un autore di talento come Scorsese... saper vedere dentro un film, nella politica o nelle religioni significa cessare di essere ingannati... ogni persona, come ogni epoca, possiede una verità solo grazie alle proprie esagerazioni, alla capacità intima di devalorizzare i falsi idoli e detronizzare il tanfo dei despoti. Fare della decadenza dell’ammirazione e del culto della merce l’arte del dissidio, e dare vita al disfacimento del cinema al di sopra del cinema. La maggior parte della finanza, della cultura, della politica è riconducibile a un crimine di leso linguaggio, a un crimine contro l’umanità.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 11 volte marzo 2014



[1] Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979
[2] Jordan Belfort, Il lupo di Wall Street, Rizzoli, 2008
[4] Pierre Larrouturou, Svegliatevi! Perché l’austerità non può essere la risposta alla crisi, Edizioni Piemme, 2012)
[5] Formato anamorfico è un termine che può essere utilizzato sia per la tecnica cinematografia di affabulazione di una immagine in formato widescreen (schermo largo) su una pellicola da 35 millimetri o altri dispositivi di registrazione visiva, con una visione originaria non widescreen, sia a un formato di proiezione cinematografica in cui l'immagine originale richiede una lente anamorfica per ricreare le proporzioni originali. Non deve essere confuso con il widescreen anarmorfico, che è un sistema elettronico di codifica video che utilizza dei principi simili al formato anamorfico ma utilizzando una differente metodologia. La parola anamorfismo deriva dal greco e significa forma ricostruita.

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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.