L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

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domenica 28 settembre 2014

150º ANNIVERSARIO DELL'ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI, di Pier Francesco Zarcone

Riflessione sul contrasto Marx/Bakunin

La I Internazionale (il suo nome esatto era Associazione Internazionale dei Lavoratori) fu costituita a Londra il 28 settembre del 1864 da sindacalisti britannici e francesi e da esponenti dell’emigrazione rivoluzionaria europea dell’epoca [1], a margine di un incontro per la difesa dell’indipendenza polacca. Dietro questa occasionalità, peraltro, esisteva l’ormai maturata consapevolezza dell’ineludibile esigenza di dare vita a un’organizzazione unitaria del proletariato che, al di là delle barriere nazionali, si contrapponesse all’internazionale sfruttamento capitalista. Che ancor prima di quell’atto fondativo la correlativa idea fosse già nell’aria, lo dimostrano le varie «leghe», «società» e «federazioni», palesi o segrete, e sovente effimere, sorte in precedenza e con prospettive palesemente transnazionali.
Il progressivo radicalizzarsi dello scontro sociale - nelle aree in cui la rivoluzione borghese o si era ben affermata o si andava sviluppando – e la crescente consapevolezza dell'inconciliabilità degli interessi di classe proletari con quelli borghesi, facevano sì che dall’originario associazionismo operaio di tipo assistenziale/solidaristico (in fondo innocuo per i padroni) si andassero sviluppando forme di agglutinazione maggiormente idonee all’innalzarsi del livello di scontro; e parallelamente negli ambienti delle società operaie aumentasse l’attenzione per i problemi economici e politici. Così alla fase di resistenza – implicante la contrattazione dei minimi salariali e la lotta ai licenziamenti – si andò accompagnando la spinta all’abbattimento del sistema socio/economico. Da qui il successo dell’Internazionale, su un terreno in cui l’associazionismo operaio assumeva caratteristiche sociali e anche politiche più radicali. Tant’è che varie organizzazioni sindacali di categoria si trasformarono in sezioni dell'Internazionale.
Da allora, come dicevamo, molto tempo è trascorso, non enorme in sé, qualora molti avvenimenti non avessero lasciato un segno pesante, con una progressiva perdita di speranze e illusioni; di modo che sembra che sia passato un millennio. Quale senso può quindi avere la memoria di quell’associazione rivoluzionaria, fonte di paure e incubi per le borghesie europee e i loro governi? Escludendo lo sterile intento commemorativo, la risposta non è difficile, e di motivi ce ne sono almeno due, fra loro correlati. Il primo motivo sta nell’attuale situazione di dominio generalizzato di un  capitalismo selvaggio e feroce, che però manifesta segni di crisi. Proprio per questo è ancora più pericoloso, in quanto le sue crisi sono sempre accompagnate da avventure belliche, che esse tornano a profilarsi nello scenario planetario. In questa situazione negli ambienti che non hanno rinunciato alla lotta di classe proletaria torna a farsi sentire da un lato il vuoto derivante dalla mancanza di un centro di coordinamento internazionale di tale lotta, e da un altro lato l’esigenza di porre rimedio a questa mancanza. 
L’ulteriore motivo è dato dagli elementi del contrasto interno, ancora attuale, a cui in buona parte è imputabile la fine dell’Internazionale: il contrasto politico e teorico fra Karl Marx e Michail Bakunin. Contrasto da vedersi, ovviamente, alla luce di tutto quando in seguito avvenuto. Il ruolo svolto dalle poderose - e tutt’altro che facili - personalità di Marx e Bakunin è innegabile. Tuttavia, volendo rimettere un po’ le cose al loro posto, vale partire da quanto precisato da Daniel Guérin, nel senso che Bakunin
«aderisce in pieno alla concezione materialistica della storia. Egli apprezza più di qualsiasi altro il contributo teorico di Marx all’emancipazione del proletariato. Ma una cosa non ammette: che la superiorità intellettuale possa conferire il diritto di dirigere il movimento operaio» [2].
E neppure va taciuto che Bakunin, nei fumi della polemica, ha talvolta attribuito a Marx ed Engels intenzioni che costoro non hanno mai apertamente espresso, come ancora una volta ha rilevato Guérin [3].  Ma a prescindere da ciò, in concreto erano in gioco problemi fondamentali per una forza rivoluzionaria, e la mancata sintesi fra le risposte a suo tempo prospettate ha fatto sì che, in seguito, ciascuno degli schieramenti in cui si divise la I Internazionale abbia dato le sue soluzioni in termini nettamente contrappositivi; da muro contro muro. Quelle soluzioni furono poi riprese senza spirito critico all’interno del movimento dei lavoratori, con la conseguenza – definibile «tragedia d’origine» - di una non sanata (e anzi aggravata) spaccatura fra marxisti e comunisti anarchici (o libertari, come si usa dire nella penisola iberica).
La situazione attuale, ironicamente, ha allineato gli epigoni dei due schieramenti, nel senso della marginalità per entrambi. A ogni buon conto resta il fatto che Bakunin ha intuito prima di tutti quali sarebbero stati gli esiti di un’appropriazione autoritaria delle posizioni di Marx; cioè a dire, che varie delle sue critiche valgono come preveggenza di quello che sarebbe poi stato il bolscevismo.
Con buona pace dei fautori del “pensiero unico” capitalista, le situazioni storiche e vicende sociali non conoscono stasi; le condizioni oggettive della stragrande maggioranza dell’umanità sono terribili e peggiorano; e, come abbiamo detto, non mancano i settori intenzionati a proseguire le lotte sociali e politiche non sentendosi residui folklorici di un morto passato, bensì prodromi di un futuro tutto da costruire. E per essi vale l’auspicio/certezza espresso da una canzone di Francesco Guccini (Stagioni):
«e voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni».

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In origine la composizione dell’Internazionale fu assai articolata, avendovi aderito pressoché tutta la gamma della sinistra europea di quel tempo, compresi i mazziniani e i blanquisti. Il carattere pluralista, tuttavia, non doveva durare a lungo. Risiedeva infatti nella stessa ragion d’essere dell’Internazionale il risultato che la classe operaia, per conseguire la sua autonomia, si emancipasse dalle tutele delle componenti borghesi “illuminate”, in quanto portatrice di interessi propri non conciliabili con quelli della borghesia, ivi compresi proprio i suoi settori radicali, che difatti non mettevano in discussione i fondamenti del capitalismo. Questo comportava una prima contrapposizione verso i proudhoniani e il loro socialismo da piccoli artigiani e piccoli imprenditori; e nei confronti dei mazziniani, fautori della collaborazione fra le classi e della proprietà privata. Comunque, i mazziniani sarebbero rimasti nell’Internazionale fino alla Comune di Parigi, quand’anche senza effettiva influenza.
L’adesione di Bakunin fu accettata dall’Internazionale nel 1868, ma per avere il placet fu necessario che l’associazione bakuninista Alleanza della Democrazia Socialista, da poco costituita, si sciogliesse nell’Internazionale stessa. Le sue sezioni divennero sezioni di quella più ampia associazione. Diciamo subito che nell’àmbito rivoluzionario europeo Bakunin era tutt’altro che un isolato, o un capopopolo di sprovveduti, tant’è che riuscì a collegare a sé molti bei nomi rappresentativi del socialismo dell’epoca (Benoit Malon, Elie ed Elisée Reclus, Albert Richard, Aristide Rey, Jean Guillaume, Adhemar Schwitzguebel, Fernando Garrido, Anselmo Lorenzo, Farga Pellier, Giuseppe Fanelli, Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Alberto Tucci e Carlo Gambuzzi).
Le divergenze concrete fra Marx e Bakunin non iniziarono su questioni vitali (difatti ne rimase fuori il tema dell’abolizione della proprietà privata delle terre e della loro socializzazione, che invece portò alla rottura con i mutualisti). Il contrasto nel IV Congresso dell’Internazionale, tenutosi a Basilea nel 1869, si manifestò infatti a proposito del diritto di eredità, la cui abolizione per Bakunin avrebbe dovuto essere inserita nei programmi dell’Internazionale. In estrema sintesi, per Marx era dalla proprietà privata che nasceva l’istituto giuridico del diritto di eredità, secondo un nesso causa/effetto. Essendo la causa più importante dell’effetto, contro di essa doveva incentrarsi l’azione dell’Internazionale, se non la si voleva deviante e dispersiva. Il problema, quindi, era attinente allo schema dei rapporti fra struttura economica e superstruttura. La posizione di Bakunin non ne implicava una contestazione netta, tuttavia partiva dall’assunto dell’esistenza di capacità operative della superstruttura - anche quella giuridica - in un quadro di interazioni reciproche fra struttura e superstruttura. Sul mero piano numerico la spuntò Bakunin (32 voti a favore, 23 contrari e 17 astensioni; mentre la tesi di Marx ne ottenne 19 a favore e 37 contrari), ma senza ottenere l’auspicata vittoria politica: infatti i voti da lui ottenuti non avevano raggiunto la necessaria maggioranza prevista dagli Statuti ai fini dell’inserimento nei programmi dell’Internazionale.
Si noti che in quell’occasione la proposta in favore di una maggiore centralizzazione nella guida dell’Internazionale, e del conseguente accrescimento dei poteri del Consiglio Generale, fu approvata pressocché all’unanimità, e con Bakunin favorevole.
Il 1871 fu l’anno della Comune di Parigi, repressa nel sangue dal governo borghese di Thiers, e del fallimento delle rivolte di Marsiglia e Lione, nelle quali forte era statol’impegno dei bakuninisti. Fu la cartina di tornassole per le componenti radical/borghesi che avevano inizialmente aderito all’Internazionale (Mazzini, Tolain, Odger, Fribourg, Cremer ecc.), ma in cui contavano sempre meno, e sempre meno ne condividevano gli obiettivi.
L’indubbio eroismo dei comunardi non aveva palesato solo le debolezze del proletariato francese, ma anche di quello europeo in genere e dell’Internazionale stessa. A ciò possiamo aggiungere un fatto di non secondaria importanza: il proletariato inglese - vale a dire il più consistente dell’Europa, a cui Marx prestava una particolare attenzione – insieme ai suoi sindacati si andava decisamente orientando verso la partecipazione alla lotta politica secondo i percorsi legali; cioè non tirandosi fuori dalle competizioni elettorali e inviando propri rappresentanti al parlamento. Da tutto questo la sempre più vigorosa presa di distanza di Marx dalla prassi insurrezionalista e il suo manifesto favore per l’organizzazione politica del proletariato e lo sfruttamento degli strumenti istituzionali esistenti nella lotta per la difesa dei diritti e per la conquista del potere. In quella contingente situazione di evidente maggior potere della borghesia e dello Stato, per Marx diventava indispensabile che i rivoluzionari non si limitassero a svolgere tra le masse lavoratrici un’opera di agitazione, di educazione e di propaganda, bensì creassero organizzazioni politiche volte alla conquista del potere, oltre a essere impegnate a mantenere e fare crescere il grado di autonomia di classe del proletariato di fronte ai settori radicali della borghesia.  
I bakuninisti, invece, traevano dalla Comune di Parigi una lezione di segno opposto: si trattava di incrementare con maggiore decisione lo scontro con lo Stato borghese per abbatterlo, per poi puntare – senza tappe intermedie – alla società comunista. Questa si sarebbe costituita mediante forme associative orizzontali, raggruppate verticalmente in federazioni, come risultato di un movimento spontaneo. Quest’ultima posizione era senz’altro egemonica in Italia e Spagna.
In concreto queste due differenti conclusioni, nei loro termini concettuali e strategici, esprimevano una realtà che solo riduttivamente può essere esaurita nelle differenti vedute di Marx e di Bakunin. Esse riflettevano invece le differenti condizioni oggettive, e i diversi gradi di sviluppo, esistenti nella classe operaia europea genericamente intesa. Siffatto insieme sociologico includeva infatti una grande varietà di estremamente diversificate situazioni sociali, economiche, politiche, nazionali, etniche, culturali etc., a fronte delle quali il centralismo dell’Internazionale e la sua tendenza ad adottare schemi strategici generali, e quindi astratti, per forza di cose operava in senso costrittivo.
Al riguardo riteniamo che se a Bakunin va imputata la sua parte di miopia di fondo, neppure Marx appare essere rimasto esente da tale difetto. L’ottica di Bakunin era fortemente condizionata da situazioni specifiche come quelle dei proletariati italiano e spagnolo; e la sua difesa delle posizioni autonomiste esprimeva l’opposizione al centralismo strategico del Consiglio Generale dell’Internazionale, ma appare innegabile una certa assolutizzazione attribuita dal rivoluzionario russo alla fattispecie italo/spagnola.
Dal canto suo Marx operava in senso specularmente opposto, finendo con l’assumendo quale paradigmatica la situazione della classe operaia britannica. Sarebbe bello poter dire che che le esperienze delle successive Internazionali abbiano affrontato in modo più soddisfacente - se non addirittura risolto - il problema del nesso fra autonomia operativa dei singoli movimenti di classe locali e prospettive strategiche transnazionali. Ma purtroppo così non è stato, e la questione resta aperta per l’eventualità che si riesca a costituire un nuovo organismo rivoluzionario internazionale.  
Alla Conferenza di Londra del 1871 [4], i cui partecipanti furono in maggioranza marxisti, Marx partì all’attacco delle posizioni insurrezionaliste, mediante la chiarificazione del tema della lotta politica, a cui si faceva cenno nella Premessa degli Statuti nel senso che
«l’emancipazione economica della politica operaia è il grande scopo a cui ogni movimento politico deve essere subordinato come mezzo».
Certo, non era il massimo della chiarezza. E infatti fu oggetto di due differenti interpretazioni: per chi condivideva la posizione di Marx quella statuizione esprimeva la necessità per la classe operaia di organizzarsi in partito ai fini della sua emancipazione economica; mentre per gli altri significava la subordinazione della lotta politica alla lotta economica. D’altro canto esisteva il «precedente» contenuto nell’Indirizzo Inaugurale dell’Internazionale, redatto dallo stesso Marx, in cui si diceva a chiare lettere, dopo aver fatto il punto sul fallimento della rivoluzione in Europa,
«La conquista del potere politico è quindi divenuta il primo dovere della classe operaia».
La Conferenza di Londra si chiuse ovviamente con la vittoria di Marx, avvenuta attraverso una nuova disposizione statutaria, l’art. 7 bis:
«Nella sua lotta contro il potere collettivo delle classi possidenti, il proletariato non può agire come classe se non costituendosi esso stesso in partito politico distinto e opposto a tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti. La costituzione del proletariato in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e del suo scopo supremo: l’abolizione delle classi. La coalizione delle forze operaie già ottenuta con la lotta economica deve servire come leva nelle mani di questa classe nella sua lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori. Poiché i padroni della terra e del capitale si servono sempre dei loro privilegi politici per difendere e perpetuare il loro monopolio economico e per asservire il lavoro, la conquista del potere politico diventa un dovere fondamentale per il proletariato».
Questo implicava che le federazioni nazionali dell’Internazionale si trasformassero in altrettanti partiti politici. In proposito ha sottolineato Pier Carlo Masini che in tal modo si veniva
«introducendo nel programma dell’Internazionale un elemento ideologico uniforme e vincolante che annullava la varietà delle correnti fino ad allora ammesse sulla base di un solo principio unificatore: la solidarietà pratica dei lavoratori di qualsiasi razza, credo o nazionalità, per il miglioramento delle condizioni, la mutua difesa, la completa emancipazione della classe operaia» [5].
Durante la Conferenza londinese fu affrontata anche la delicata questione politico/organizzativa attinente alla presenza dell’Internazionale in Svizzera, dove le organizzazioni esistenti erano due e non in buoni rapporti reciproci: il Comitato Federale Romando dei seguaci di Marx e la bakuninista Federazione del Giura. La Conferenza decise per l’esistenza di una sola sezione dell’Internazionale in quel paese, e invitò la Federazione del Giura a confluire nella federazione romanda. La decisione rimase lettera morta per la reazione dei bakuninisti svizzeri che, riunitisi a congresso a Sonvillier, accusarono Londra di autoritarismo. Tenuto conto della reazione ostile suscitata dall’introduzione dell’art. 7 bis in varie sezioni e federazioni dell’Internazionale, chiaramente si andava ormai allo scontro finale.
A dicembre del 1871 la Federazione Belga prese posizione in favore dei bakuninisti svizzeri, provocando a marzo del 1872 la condanna di Bakunin per frazionismo da parte del Consiglio Generale in una circolare privata. La Federazione del Giura rispose con un documento firmato anche da Bakunin. Ad aprile dello stesso anno anche il II Congresso delle Società Operaie Spagnole si schierò con la Federazione del Giura, e ai primi di giugno furono espulsi dal Consiglio Federale spagnolo Paul Lafargue, genero di Marx, e i partigiani del Consiglio Generale di Londra. Costoro lestamente costituirono una propria federazione madrilena. Ben più radicale la scelta effettuata in agosto a Rimini dal Congresso delle sezioni italiane: oltre a pronunciarsi in favore dei compagni del Giura, i delegati chiesero la riduzione dei poteri del Consiglio Generale e la sua trasformazione in mero ufficio di corrispondenza; il riconoscimento di larga autonomia per le federazioni nazionali; e inoltre essi dichiararono decaduto il Consiglio Generale in carica e decisero di non inviare delegati al successivo congresso dell’Internazionale (Carlo Cafiero vi si recò in veste di mero osservatore).
Dal canto suo la Federazione del Giura inviò i suoi delegati col mandato vincolante di battersi per l’abolizione del Consiglio Generale e la soppressione di ogni autorità in seno all’Internazionale.
Il quinto e ultimo Congresso di questa associazione si riunì all’Aja il 2 settembre 1872. La maggioranza dei delegati era a favore di Marx, che per maggiore sicurezza disponeva anche di qualche delegato di sezioni fittizie, come quelle di Boemia e Ungheria. In tali condizioni l’espulsione di Bakunin era scontata. E così fu (27 voti a favore, 7 contrari e 8 astensioni; anche Guillaume incorse nell’espulsione). I poteri del Consiglio Generale vennero aumentati, e se ne decise il trasferimento (in realtà senza motivi funzionali concreti) a New York. Vittoria totale – ma pirrica - di Marx, perché fu anche la fine dell’Internazionale. Contro i risultati del Congresso dell’Aja si pronunciarono quasi tutte le Federazioni: di Francia, del Belgio, del Giura, della Spagna, dell’Italia, degli Stati Uniti, dei Paesi Bassi, di Inghilterra. Questo dimostrava come la maggioranza di quel congresso non rispecchiasse gli effettivi rapporti di forza esistenti nell’Internazionale, e quindi fosse precostituita.
Il 15 settembre 1872, a Saint-Imier i bakuninisti (francesi, spagnoli, svizzeri, italiani, americani) posero le basi per un’internazionale anti-autoritaria (evidentemente erano di ben altra tempra rispetto agli attuali ambienti che continuano a riferirsi all’anarchismo). Del congresso di Saint-Imier sono importanti alcune affermazioni di principio. In primo luogo quella che attribuiva ai congressi essenzialmente il ruolo di mettere a confronto le varie posizioni esistenti, affinché poi nell’agire concreto se realizzassero l’armonia e l’unione; con la conseguenza che
«in nessun caso la maggioranza di un congresso qualunque potrà imporre le sue risoluzioni alla minoranza».
Tale statuizione era palesemente rivolta a porre un argine al rischio di deriva autoritaria della democrazia ma, come ha opportunamente notato Pier Carlo Masini:
«essa costituirà per tutta la storia del movimento anarchico un insormontabile ostacolo ideologico al suo efficiente operare nella lotta politica e darà vita, non senza ragione, alle correnti individualiste. Queste saranno al principio una interpretazione estrema, negando (...) valore e utilità ai congressi e ostacolandone in ogni modo la organizzazione e un sereno svolgimento» [6].
E inoltre – importante sfumatura progressivamente andata perduta – il principio affermato a Saint-Imier
«non sembra rifiutare la regola della maggioranza per la procedura interna dei congressi (il rifiuto è limitato ai poteri legislativi e direttivi) e non esclude che i congressi rappresentino con votazioni aventi un semplice valore statistico, gli schieramenti di opinione venuti a confronto, salva la libertà della minoranza di non conformarsi alla maggioranza» [7].
Il secondo principio ribadiva che il proletariato deve distruggere ogni potere politico, e il suo sapore polemico verso la concezione di Marx è di tutta evidenza. Tuttavia, esso contrastava con un’altra risoluzione approvata nel medesimo Congresso:
«il voler imporre al proletariato una linea di condotta e un programma politico uniforme come la via unica che possa condurla alla sua emancipazione sociale è una pretesa tanto assurda quanto reazionaria».
Una contraddizione che ancora aspetta di pervenire a una sintesi superiore.
Va comunque ricordato che negli ambienti di questa Internazionale libertaria si svolse un’elaborazione teorica di un  certo rilievo ai fini della chiarificazione delle idee in ordine ai problemi di una società postrivoluzionaria e alle possibili soluzioni. Ci si riferisce innanzi tutto al lavoro di Guillaume del 1876 dal titolo Idee sull’organizzazione sociale [8], che altresì conteneva una lucida analisi sull’impossibilità della rivoluzione socialista in un solo paese; e poi al dibattito teorico svoltosi fra il belga César de Paepe e lo svizzero Adhémar Schwitzguébel sulla gestione dei servizi pubblici [9].
A settembre dell’anno successivo a Ginevra i Congressi di entrambe le Internazionali rivali si svolsero in contemporanea, ma a quello bakuninista parteciparono i delegati di sette paesimentre alla riunione dell’Internazionale ormai marxista c’erano solo gli svizzeri. Un capitolo di storia si chiudeva malamente. La Conferenza di Filadelfia, del 15 luglio 1876, sciolse formalmente l’Internazionale ormai ridotta a una stentata vita burocratica. E l’anno successivo si sciolse anche l’Internazionale Antiautoritaria, per una serie di difficoltà oggettive e soggettive [10]. Tuttavia negli ambienti bakuninisti rimase viva l’esigenza di fare parte di un organismo internazionale che coordinasse e unificasse strategicamente le lotte di classe locali. Ancora non era venuta la lunga fase in cui tra gli anarchici prevalesse la scelta autistica in favore dell’isolamento dal resto delle correnti rivoluzionarie; ma i germi già esistevano.
Fallito nel 1881 l’ulteriore tentativo di costituzione di una nuova Internazionale anarchica, patrocinato da Errico Malatesta, nel 1889 taluni anarchici si presentarono alla riunione socialdemocratica di Parigi da cui nacque la II Internazionale, ma ricevettero un’accoglienza pessima degenerata in violenti scontri con i socialisti. Lo stesso accadde poi nel 1892 a Bruxelles, al Congresso Socialista Internazionale [11].
I socialdemocratici presero quindi la loro strada, ma la II Internazionale dimostrerà la sua inconsistenza teorico/pratica alla prima vera prova di portata storica: lo scoppio della I Guerra Mondiale. Prevalse il particolarismo nazionale. Gli anarchici, dal canto loro, ebbero a che fare con un notevole morbo borghese attecchito fra le loro fila: l’individualismo [12] con la conseguenza di scelte antiorganizzative. Come ha scritto Masini,
«questo motivo polemico, esaltato e ideologizzato, comincia a lavorare come un tarlo contro lo stesso anarchismo di tendenza associativa, a orientamento federalista. (...) favorì la diffusione di un anarchismo che prima istintivamente e poi in modo più programmatico razionalizzava questa disorganizzazione di fatto ed avversava qualsiasi forma di associazione generale e permanente (in una parola del partito anarchico)» [13].
Trovatisi alle corde, verso la fine del secolo XIX, e isolati rispetto al mondo del lavoro, gli anarchici si rimisero in carreggiata mediante la scelta sindacalista. Fondamentale fu il Congresso Internazionale Anarchico di Amsterdam (24-31 agosto 1907). Già a monte c’era stato l’ammonimento di Pëtr Kropotkin a operare all’interno delle masse popolari e con esse; e nel 1898 Fernand Pelloutier in un denso articolo aveva sostenuto la sua visione del sindacato come scuola pratica di anarchismo. Quando però Pierre Monatte, al Congresso di Amsterdam propose una risoluzione in cui si affermava:
«Il Congresso Anarchico Internazionale considera i sindacati allo stesso tempo come organizzazione di combattimento, nella lotta di classe, in vista del miglioramento delle condizioni di lavoro, e come unioni di produttori che possono servire alla trasformazione della società capitalista in una società comunista anarchica»,
si scontrò aspramente con i «puristi» dell’anarchismo (cioè quelli che mai hanno fatto una rivoluzione), e in primis con Malatesta, secondo il quale il sindacato è solo un mezzo per il miglioramento economico dei lavoratori [14].
Con buona pace di Malatesta, il movimento libertario, come ha scritto Guérin [15], nel suo periodo migliore sarebbe rimasto caratterizzato dalla fusione fra l’idea anarchica e l’idea sindacalista, e le sue più importanti concretizzazioni si avranno nella spagnola Cnt, nell’italiana Usi e nella portoghese Cgt. I rispettivi regimi fascisti della prima metà del secolo XX tuttavia le azzereranno nella tragedia e nel sangue.

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Tra i contenuti dello scontro Marx/Bakunin è rilevante – per il fatto di coinvolgere problematiche fondamentali per la costruzione rivoluzionaria – quello riguardante la lotta politica. La sua incidenza sulla storia del movimento dei lavoratori è stata tragica e sanguinosa. Ma preliminarmente una considerazione è d’obbligo: è di tutta evidenza che Marx e Bakunin, avendo entrambi partecipato all’Internazionale per un periodo non breve, dovevano per forza condividere fondamentali elementi teorici e programmatici; e questo spiega il malessere con cui vari ambienti dell’associazione vissero il progressivo aggravarsi del dissidio fra i due. Da questa comunanza è utile prendere le mosse.
L’orizzonte finale che li accomunava - partendo dalla lotta al sistema di sfruttamento capitalista, basato sull’acquisto della disponibilità di forza-lavoro a fronte del salario - era costituito dall’avvento di una società senza classi e tale da rendere possibile per ogni persona lo sviluppo delle proprie capacità creative ed esistenziali, grazie anche all’eliminazione della divisione tra lavoro manuale e intellettuale e all’eguaglianza fra uomini e donne. Il superamento del sistema capitalista avrebbe consentito a ogni lavoratore di svolgere una parte attiva nell’organizzazione/pianificazione/ottimizzazione del processo produttivo. Non si dimentichi che Bakunin condivideva la critica dell’economia politica effettuata da Marx e il metodo del materialismo storico, tanto che fu lui a tradurre in russo il primo libro de Il Capitale; e va ricordato che in Italia un illustre militante bakuninista, Carlo Cafiero, elaborò un’eccellente sintesi di quell’opera per la diffusione del pensiero marxista tra i lavoratori [16].
Comune era inoltre la consapevolezza della necessità che la liberazione fosse opera dei lavoratori stessi (come era proclamato negli Statuti dell’Internazionale), senza fallaci aspettative in interventi riformisti della borghesia e dello Stato; e infine entrambi erano convinti che, per avere successo, la rivoluzione dovesse avere uno sviluppo transnazionale.
C’è un ulteriore aspetto da menzionare, in genere poco considerato. Aderendo all’Internazionale Bakunin, ovviamente, ne condivise anche il programma. Poiché quell’associazione non era un partito, ma un fronte unito dei lavoratori di diversa estrazione ideologica, molto intelligentemente Marx, senza alterare le finalità ultime anticapitaliste e rivoluzionarie, impostò un programma estremamente realistico, sia in termini oggettivi (perché recepiva le esigenze immediate del mondo del lavoro), sia in termini di accettabilità (almeno virtuale) da parte dell’Internazionale nel suo complesso. Al programma fu improntata l’attività dell’associazione.
Questo è un aspetto di estrema importanza, da non trascurare. Bakunin e i suoi non contestarono mai quel programma; il che attesta come non sia vero che gli anarchici non accettano un «programma minimo». Il problema è se siano persone serie o no. E così abbiamo che l’Internazionale si batté anche per la promozione del lavoro cooperativo, per la riduzione della giornata lavorativa per donne e fanciulli, per l’introduzione legislativa della giornata lavorativa di 10 ore per gli altri lavoratori, per la diffusione dell’associazionismo sindacale, per il sostegno degli scioperi; e infine estese la sua azione di solidarietà alla Polonia oppressa e a Lincoln durante la guerra civile fra Stati del nord e del sud. 
Inoltre – aspetto poco conosciuto, poiché in fondo non conveniente per nessuno dei continuatori della polemica – nel corso dell’attività dell’Internazionale il contributo della componente libertaria [17] non fu di secondaria importanza; anzi talvolta fu decisivo, come avvenne al Congresso di Bruxelles del 1868, durante il quale si decise sulla sorte dei beni e servizi espropriati e nazionalizzati. Al precedente Congresso di Losanna, nel 1867, due tesi si erano fronteggiate, quella del belga César de Paepe, che proponeva di renderne proprietario lo Stato; e quella dell’allora bakuninista Charles Longuet, per il quale - non dovendo essere lo Stato qualcosa di diverso dalla collettività dei cittadini - non era ammissibile che ad amministrare quei beni e quei servizi fossero funzionari statali, in luogo di compagnie operaie, e quindi ne propugnava la socializzazione contro ogni deriva statalista. Fu quest’ultima tesi a essere adottata, secondo la formula:
«La proprietà collettiva apparterrà all’intera società, ma sarà concessa ad associazioni di lavoratori. Lo Stato non sarà più che la federazione dei diversi gruppi di lavoratori».
Vi è infine da introdurre una questione di merito, tanto per restare ancora sul piano delle cose fondamentali che univano: Marx va visto e considerato per la sua azione e il suo pensiero assunti nella globalità, e senza le superfetazioni derivanti da Engels e dai successivi «marxisti». Non dimenticando che lo stesso Marx negli ultimi tempi ebbe a dire:
«Tutto ciò che so è che io non sono marxista» [18].
 E al riguardo ha commentato Maximilien Rubel che in questo modo Marx intendeva
«sottolineare il proprio rispetto verso un principio fondamentale: la causa del movimento operaio non doveva essere legata al nome di un pensatore, per quanto geniale potesse essere. Tollerare l’impiego (...) dei termini «marxista» e «marxismo» significava tradire lo spirito di una teoria la cui originalità consisteva precisamente nel fatto di essere stata concepita come espressione della volontà e della coscienza di una classe sociale (...)» [19].
Dell’azione politica concreta di Marx va rilevato il costante intervento a difesa delle libertà democratiche: la difesa dei cartisti inglesi; l’opposizione a Napoleone III, allo zarismo e allo Stato prussiano sono esempi sufficienti. Come pure risulta chiaro dai testi marxiani che per lui la realizzazione della democrazia implicava una società di cittadini/produttori liberamente associati che non alienano più la loro personalità per costrizioni politiche ed economiche. Su questo, come pure sull’essere istituzioni incompatibili con l’umana libertà lo Stato e il capitale, sia lui sia Bakunin erano perfettamente d’accordo.
In definitiva Marx ha effettuato una duplice azione critica: le critica dell’economia politica borghese, e la critica sociale incentrata sulla necessità di liberare la democrazia dal capitale (elemento economico dello sfruttamento da parte della borghesia) e dallo Stato (elemento politico dello sfruttamento da parte di quella classe). Su tutto questo non poteva esserci un disaccordo. 
Anche circa il ruolo delle avanguardie nel corso della lotta di classe ci si deve liberare da vari luoghi comuni frutto solo di spirito polemico. Se è vero che Bakunin sottolineava spesso e volentieri lo spontaneismo delle masse, è pur vero che l’assolutizzazione di questo aspetto contrasta – e di molto – con tutta la sua costante azione cospiratoria e con il suo ricorso alla fondazione di associazioni rivoluzionarie più o meno segrete. Se queste non erano avanguardie, allora cosa erano? Se alla parola si dà il corretto significato di trovarsi più avanti, di fungere da orientamento e guida, e non il significato «sostituzionista» poi conferitogli da Lenin, non pare che nemmeno su questo punto vi fosse un contrasto insanabile. D’altro canto Marx oltre a non essere marxista non era nemmeno leninista!
Si potrebbe forse dire che sul problema della libertà Marx metteva troppo l’accento sulla determinante economica, mentre per Bakunin libertà ed eguaglianza non dipendevano da un dato modo di produzione, ma dall’eliminazione di condizionamenti sociali inerenti alla superstruttura  In definitiva si trattava di sfumature, di punti di vista (in senso proprio) differenti, e a cui possono attaccarsi solo degli inveterati rimasticatori della dogmatizzazione del pensiero altrui.
Per quanto riguarda lo Stato, paradossalmente – si potrebbe dire – sia Marx sia Bakunin erano d’accordo anche sulla sua finale abolizione [20]. Il problema del “quando” di questa finale abolizione finì col diventare elemento di contrasto, fino alla rottura a cui senz’altro contribuirono le specificità caratteriali del filosofo tedesco e del cospiratore russo. Possiamo anche considerare piccinerie la ben scarsa simpatia di Marx per i russi e di Bakunin per i tedeschi; ma la notevole considerazione di sé stessi manifestata nei fatti dai due contendenti, e la loro tendenza a caricare di valenze negative la personalità dell’avversario [21] dettero un poderoso contributo all’inconciliabilità delle rispettive posizioni.
Il modo in cui entrambi i contendenti si attestarono sulle rispettive posizioni, in ciò poi imitati dai rispettivi seguaci, ebbe come ovvia conseguenza il mancato apporto critico dell’uno verso l’altro, con conseguenze esiziali per le successive fasi del movimento di emancipazione rivoluzionaria dei lavoratori.
Il problema della lotta politica concretizzatosi - come detto - nell’introduzione dell’art.7 bis negli Statuti, nella concezione marxiana si traduceva in due aspetti fra loro collegati: quello della cosiddetta “transizione” alla società comunista, e quello della dittatura del proletariato, che dette adito all’accusa di autoritarismo da parte dei bakuninisti.
A costo di sembrare semplicisti, c’è da dire che le due “scuole di pensiero” avrebbero potuto anche coesistere (e fornirsi mutui apporti) se – e qui ci vuole un “soprattutto” – il carattere autoritario di Marx e l’intransigenza di Bakunin non avessero complicato le cose, col risultato di collocare i due orientamenti nella sfera dell’inconciliabilità. Degli epigoni si è già parlato. Nell’argomentare la predetta conclusione si farà riferimento anche alle esperienze pratiche delle due rivoluzioni di carattere comunista anarchico del secolo scorso – quella ucraina dopo il 1917 e quella spagnola del 1936 – alla luce del principio “la prassi verifica tutto”.
Cominciamo dall’impostazione marxiana contenuta nel Manifesto del partito comunista (1948). Dopo aver affermato che il primo passo della rivoluzione operaia sta nell’elevarsi del proletariato a classe dominante, la previsione di Marx ed Engels era che
«Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive. (...) Quando nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i  vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classse» [22].
Nel 1852 Marx tornò sul tema in una famosa lettera a Weidemeyer, specificando
«1. che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi» [23].
Non si può negare ai passaggi a annuncio profetico, stante l’assenza di ogni spiegazione contenutistica e relativa alle modalità organizzativo/istituzionali con cui si verificherebbero le fasi sopra indicata. Comunque sia i testi citati espongono la teoria di una rivoluzione che si evolve a tappe, durante le quali lo Stato non viene immediatamente distrutto, ma si estingue alla fine di una fase di transizione che si presenta come un’evoluzione necessaria.
Bakunin ben conosceva il Manifesto del ‘48 e sviluppò una critica che, come già detto, vista retrospettivamente ha il sapore di un’esatta previsione di quel che sarebbe poi accaduto in Unione Sovietica:
«Lo Stato diventato solo proletario (...) sarà anche l’unico capitalista, il banchiere, il finanziatore, l’organizzatore, il direttore di tutto il lavoro nazionale, e il distributore dei suoi prodotti. (...) Questa rivoluzione consisterà nell’espropriazione successiva di tutte le terre e di tutto il capitale da parte dello Stato che, per poter svolgere la sua grande missione sia economica che politica, dovrà essere necessariamente molto potente e assai fortemente accentrato. (...) Nello Stato popolare di Marx, ci si dice, non ci saranno classi privilegiate (...) ma un governo eccessivamente complicato, che non si accontenterà di governare e di amministrare le masse politicamente, come fanno tutti i governi oggi, ma che amministrerà anche economicamente, concentrando nelle sue mani la produzione e la giusta ripartizione delle ricchezze, la coltivazione della terra, lo stabilimento e lo sviluppo delle fabbriche, l’organizzazione e la direzione del commercio, infine l’applicazione del capitale alla produzione da parte di un solo banchiere, lo Stato» [24].
Tuttavia l’elaborazione di Marx non era rimasta ferma al 1848, non essendo egli il classico dogmatico ottuso (come invece molti suoi seguaci, contemporanei e non), impermeabile agli effetti di avvenimenti suscettibili di fungere da stimolo per rimeditare precedenti dati teorici. E così fu che l’esperienza della Comune di Parigi indusse Marx ad apportare un significativo aggiustamento alla posizione espressa nel Manifesto. Nel merito sono importanti tre scritti: una lettera a Kugelmann durante la rivoluzione parigina, l’Indirizzo redatto da Marx nel 1871 a nome del Consiglio Generale dell’Internazionale sui fatti della Comune, e la prefazione del 1872 a una riedizione del Manifesto medesimo.
La tesi in essi esposta da Marx era che la classe operaia non deve limitarsi all’impossessamento della macchina statale che trova già pronta; bensì la deve spezzare. E, ulteriormente, nell’Indirizzo del ’71 Marx affermava in termini netti che la Comune era
«la forma politica, finalmente trovata, con cui realizzare l’emancipazione economica del lavoro».
Ciò poteva rappresentare, sul piano della prassi teorica, uno sforzo di sintesi con le posizioni bakuniniste, e così venne inteso, per esempio, da Jean Guillaume, benché con una riserva di fondo sulla sincerità di Marx. Ad ogni modo queste nuove prese di posizione rappresentavano – nell’oggettività delle parole scritte – un mutamento di rotta non secondario. Vale la pena di riportare quanto scritto dallo studioso anarchico Arthur Lehning:
«È un’ironia della storia che nel momento stesso in cui la lotta delle tendenze autoritarie ed antiautoritarie raggiungeva l’apogeo, Marx, impressionato dall’enorme effetto del sollevamento rivoluzionario del proletariato di Parigi, si sia fatto portavoce delle idee di questa Rivoluzione, che erano l’opposto di quelle che egli rappresentava, in un modo tale che si potrebbe considerarle il programma di quella tendenza antiautoritaria che egli combatteva con tutti i mezzi (...). La Comune di Parigi non aveva niente di comune con il socialismo di Stato di Marx, ma andava molto più d’accordo con le teorie di Proudhon e la teoria federalista di Bakunin (...). Il principio essenziale della Comune (...) era che il centralismo politico dello Stato doveva essere rimpiazzato da un autogoverno dei produttori, con una federazione delle comunità autonome a cui doveva essere affidata l’iniziativa fino ad allora lasciata allo Stato (...). La Comune di Parigi non ha centralizzato i mezzi di produzione nelle mani dello Stato. L’obiettivo della Comune di Parigi non fu di lasciare “deperire” lo Stato, ma di abrogarlo immediatamente (...) L’annientamento dello Stato non era il risultato finale inevitabile di un processo storico dialettico (...). La Comune di Parigi annientò lo Stato, senza realizzare nessuna delle condizioni definite precedentemente da Marx come preludio alla sua abrogazione (...)» [25].
Lo stesso Lenin in Stato e Rivoluzione – scritto alle soglie della Rivoluzione d’Ottobre, non giudicato negativamente dagli anarchici russi, e la cui impostazione Lenin stesso relegò nell’oblio dopo la vittoria – ha attribuito alle conclusioni marxiane sulla Comune [26] il carattere di emendamento sostanziale del Manifesto Addirittura il marxologo Maximilien Rubel (che a differenza di Lehning ha considerato Marx un libertario) ha sostenuto che con la svolta determinata dalle vicende parigine il pensiero marxiano avrebbe trovato la sua forma definitiva riguardo al problema politico [27].
Una conferma può essere inferita da alcuni passaggi della Critica al Programma di Gotha (1875) laddove si pone il contrasto fra lo Stato come
«organo sovrapposto alla società (...) ente autonomo (...) organismo a sé» [28],
e il periodo della trasformazione rivoluzionaria della società capitalista nella società comunista in cui
«Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato» [29].
Dovendo questa «dittatura» differenziarsi dallo Stato per non essere anch’essa un organismo politico sovraordinato alla società, la conclusione obbligata è che in essa il potere deve muoversi dal basso: deve essere la democrazia proletaria.
Tuttavia l’ulteriore sviluppo del pensiero marxiano ebbe un’incidenza pressoché nulla sullo sviluppo dei contrasti nell’Internazionale, che seguirono il loro nefasto corso in piena autonomia. E anche dal punto di vista teorico non ebbe alcuna influenza sulle elaborazioni dei seguaci di Marx, in quanto – come rilevò in uno scritto del 1918 l’illustre marxista Franz Mehring [30] - Engels, dopo la morte dell’amico, in polemica con gli anarchici tornò radicalmente alle posizioni espresse nel Manifesto
Ad ogni buon conto la svolta marxiana del ’71 da sola non chiudeva la questione della lotta politica. Infatti, la lectio ricavabile dalla Comune riguardava la fase dello scontro rivoluzionario finale, mentre rimanevano in piedi il cosa fare e come organizzarsi soprattutto quando la rivoluzione non è dietro l’angolo. La sua posizione tradizionale fu ribadita negli Statuti approvati nel 1872 dal Congresso dell’Aja, al punto 7a:
«Nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti. Questa organizzazione del proletariato in partito politico è necessaria allo scopo di assicurare la vittoria della rivoluzione sociale (...). L’unione delle forze della classe operaia, che essa ha già raggiunto grazie alla lotta economica, deve anche servirle di leva per la lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori».
Il partito politico del proletariato, quindi, come organizzazione di classe volta a conferire unità di pensiero e azione alla lotta contro la borghesia per il potere.
Orbene, a seconda dalla situazione oggettiva la lotta contro il dominio della borghesia per il suo abbattimento, e per la creazione di un diverso assetto sociale, è esperibile con due modalità, che tengono conto dei rapporti di forza esistenti: o l’insurrezione o la partecipazione alla competizione politica secondo i canali stabiliti dal sistema liberal/democratico. Eventualmente ricorrendo ad ambedue le modalità.  
Nella galassia anarchica la partecipabilità alla competizione elettorale borghese è per i più qualcosa che sta fra il dogma e il tabù. La ben nota la critica svolta da Lenin in L’estremismo malattia infantile del comunismo conteneva molte esattezze. A dire il vero è capitato che nella Spagna del 1936 gli anarchici abbiano votato, per il Frente Popular, ma senza avere candidati propri; tuttavia hanno finito con l’avere propri ministri nel governo repubblicano (peraltro, ministri tecnicamente molto efficienti la cui condotta potrebbe essere classificata più  “da socialisti di sinistra” che non da distruttori del sistema). La scelta astensionista – in senso attivo e passivo – non ha però carattere strategico per tutti, e militanti dei moderni gruppi comunisti anarchici (soprattutto in quelli ispirati dalla Piattaforma di Machno e Aršinov) votano in occasione di referendum su questioni fondamentali o inerenti alle c.d. “regole del gioco” di immediata incidenza sulla vita di tutti.
Passando a un altro argomento, possiamo dire che ancora una volta  la I Internazionale ha messo in campo due tematiche terribili, troppo spesso oggetto di argomentazioni svolte con toni apodittici e/o semplicisti. Il tema del partito rivoluzionario richiederebbe un ampio studio a parte, condotto anche in base al dato di fatto che sono esistiti e ci sono state delle rivoluzioni che tali partiti se le sono trovate davanti per la discesa in campo spontanea delle masse popolari; e spesso e volentieri hanno svolto un ruolo controrivoluzionario, strumentalizzando le insorgenze per acquisire un proprio dominio sul popolo medesimo.
In linea di massima, nell’ambiente anarchico la parola “partito”, se non è tabù, è tuttavia connotata negativamente. Ma i settori comunisti anarchici non hanno mai potuto eludere il problema dell’organizzazione politica [31] come avanguardia (altra parola “tabù”, ma qui utilizzata perché corrispondente alla realtà delle cose) da collegarsi con l’organizzazione di massa, equivalente all’organizzazione sindacale.  
Per un partito rivoluzionario, o organizzazione politica di classe che sia, qualunque scelta esso effettui in ordine alla partecipazione alle elezioni, il risvolto della medaglia non manca, come la storia ha dimostrato. Gli anarchici hanno effettuato una scelte opposta quella dei partiti marxisti, avendo di mira solo l’esito rivoluzionario. Ma dove esso è inesistente, quand’anche esistano tensioni e conflitti sociali, non riescono a far capire alle masse in lotta quale sia il senso – o la prospettiva – del volgersi dalla loro parte. E il cosa fare, e come rendersi presenti (al di là dei fatti testimoniali), risultano problematici.
Anche la scelta elettoralista, però, ha le sue spine ed esse aumentano se la si assolutizza (come per converso la assolutizzazione nuoce alla scelta astensionista fine a sé stessa). Ogni medaglia ha il suo rovescio, e una volta Eduardo Galeano ricordò una scritta comparsa su un muro di Montevideo, che diceva:
«Se le elezioni cambiassero le cose, sarebbero illegali».
E quando poi a vincerle sono partiti di sinistra con la seria intenzione di incidere sugli interessi economici della borghesia una feroce reazione alla cilena è assicurata. Seppure – per ipotesi teorica – essa non si verificasse, è fuori dubbio il ritorno alla situazione pregressa alla prima vittoria dei partiti borghesi. È come se la storia ci ammonisse sulla necessità di fare seguire “l’assalto al cielo” alla vittoria elettorale. Ma spesso più facile a dirsi che a farsi.
Pur prescindendo dalle svolte alla cilena, l’accesso al parlamento borghese è foriero di pericoli suoi propri per i rappresentati delle classi popolari. Innanzi tutto – ed è fenomeno ricorrente – questo accesso, unitamente al suffragio universale e alla possibilità di ricevere il mandato per un numero infinito di legislature, fanno scendere una pesante coltre di oblio su intere biblioteche di analisi critiche circa la natura dello Stato, e quindi del parlamento medesimo.A ciò si aggiunga l’altro ricorrente fenomeno del distacco progressivo degli eletti rispetto alle classi che sono stati chiamati a difendere, e il loro ingresso nella classe politica ufficiale, le cui connotazioni oligarchiche sono ben visibili.  
Su questo punto la critica di Bakunin è degna di meditazione. Il passo che segue riguarda la partecipazione al governo, ma le considerazioni ivi contenute sono suscettibili di estensione anche all’agone parlamentare:
«Basta ad un uomo, anche al più aperto e al più popolare, di fare parte di un qualunque governo perché cambi natura; a meno che non si rituffi molto spesso nell’ambiente popolare, a meno che non sia costretto a una trasparenza e a una pubblicità permanenti, a meno che non sia sottoposto al regime salutare, continuo, del controllo e della critica popolare che deve ricordargli sempre che non è il padrone, né il tutore delle masse, ma soltanto il loro rappresentante o il loro funzionario eletto e ad ogni istante revocabile, egli corre inevitabilmente il rischio di guastarsi nel frequentare esclusivamente aristocratici come lui, e di diventare uno sciocco pretenzioso e vanitoso, tutto tronfio per il sentimento della sua ridicola importanza» [32].
Disgraziatamente non si tratta di problemi risolvibili a tavolino una volta per tutte; e comunque quand’anche esistessero i meccanismi di controllo e di revoca a cui faceva cenno Bakunin, essi rischiano di restare sulla carta laddove le masse popolari – vuoi come residuo di un’originaria educazione religiosa, vuoi per le loro attuali caratteristiche antropologiche culturali – abbiano la tendenza o a ricercare l’ennesimo “salvatore della patria” dalla colorazione variabile, oppure a demandare ad altri l’ardua impresa del pensare.
Ci sarebbe poi la vexata quaestio della dittatura del proletariato, ispiratrice di varie tonnellate di carta stampata sia in favore sia contro. Sul suo contenuto molti ritengono che Marx non abbia fornito cenni adeguati. L’espressione «dittatura della classe operaia» risulta da lui usata per la prima volta nel libro Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850; ma gli avvenimenti della Comune in realtà dettero modo a Marx anche di chiarire che cosa intendesse (se lo si vuole intendere). Infatti, nel suo La guerra civile in Francia, avente ad oggetto quella esperienza, egli evidenziò quali fossero le oggettive caratteristiche della Comune parigina in rapporto proprio alla dittatura del proletariato. Tali caratteristiche riguardano: l’abolizione dell’esercito permanente e organizzazione di una milizia operaia; la soppressione del parlamentarismo e la realizzazione della democrazia diretta, con la creazione di assemblee dei delegati eletti a suffragio universale, retribuiti con salario operaio, direttamente responsabili del loro operato e – soprattutto - revocabili in qualsiasi momento dal corpo elettorale; soppressione dei privilegi burocratici ed eliminazione di tutte le funzioni repressive e parassitarie tipiche dello Stato borghese.
E poi Marx tornò sul tema qualche anno dopo nella Critica al programma di Gotha, testo  in cui la sua critica al programma del Partito Operaio Tedesco affronta anche la ben scarsa attenzione dedicata ai processi di trasformazione di tipo rivoluzionari e al futuro della società comunista.
Quindi è arbitrario intendere la dittatura del proletariato alla maniera giacobina di Louis Blanc o di Lenin. Né deve cadere nell’oblio la riflessione che ne fece un illustre menscevico di sinistra (marxista), Julij Martov. A giudizio di Martov il concetto di dittatura del proletariato doveva essere inteso in analogia con il termine “dittatura della borghesia” per esprimere la realtà del potere egemonico di questa classe nelle società capitaliste riguardo al proletariato. Realtà definibile in quel modo anche in rapporto a paesi di tradizione democratica/parlamentare come la Gran Bretagna, la Francia o la Svizzera.
Di modo che la dittatura del proletariato in senso marxista non è sinonimo di dominio giacobino come è risultato con il “socialismo reale”, bensì indica l’egemonia economica e politica del proletariato sui residui della borghesia e dei suoi asserviti. Sicuramente Marx con quel concetto non ha indicato una specifica forma di governo, tant’è che in una lettera a Nieuwenhuis del 22 febbraio 1881 sostenne che la dittatura del proletariato può esistere anche in presenza del suffragio universale (e certo non si riferiva al elezioni fittizie alla vecchia maniera bulgara).
Se poi ci volgiamo alle esperienze storiche delle rivoluzioni di segno comunista anarchico, risulta che l’effetto allergico suscitato in tanti anarchici dall’uso di quella espressione marxiana è più voluto che effettivamente giustificato. Vanno ricordati sia l’ammonimento di Shakespeare sul fatto che la rosa continua a profumare anche sotto un altro nome, sia il detto inglese sullo sciocco che non vede il bosco a causa degli alberi. Per chiarimento ci permettiamo un’autocitazione da un nostro precedente lavoro sulla rivoluzione spagnola:
«(...) all’atto pratico, nelle zone a egemonia libertaria, che cosa hanno fatto i militanti anarchici – e le masse con cui operavano – se non instaurare una dittatura del proletariato (come classe) senza chiamarla così? (...) dov’era la libertà di azione per i nemici di classe? Come spiegare altrimenti tutte le lamentele e le denunce dei borghesi per il comportamento rivoluzionario dei miliziani confederali, che operavano come hanno sempre operato i rivoluzionari laddove hanno potuto agire come tali. La requisizione e la gestione collettiva delle imprese e delle terre furono azioni da dittatura del proletariato; né più né meno. Idem per le fucilazioni sommarie dei simpatizzanti degli insorti in quanto nemici di classe. E quando in Ucraina, durante la Rivoluzione russa, in una zona passava la c.d. “armata nera” di Machno, anch’essa praticava nella realtà dei fatti la dittatura di classe del proletariato, e nessuno, nemmeno gli anarchici della corrente “pontificatrice” da accademia sono mai arrivati a negare l’anarchismo di Machno. (...) Nascondersi dietro un dito non vale, perché in una rivoluzione sociale la dittatura di classe degli sfruttati [33] è cosa fisiologica. (...) Possiamo non chiamarla dittatura del proletariato, se pensiamo che il nome sia stata inquinata dalla storia: chiamiamola democrazia proletaria o quello che ci pare. I nomi, in fondo, sono convenzioni. Quando nella Piattaforma dell’Unione Generale degli Anarchici-Progetto, di Machno, Aršinov ecc. Si sosteneva che «per trasformare la società capitalista in una società di lavoratori liberi non vi è altra strada che quella della rivoluzione sociale violenta», che cos’altro si deve intendere se non un’imposizione di classe sui nemici di classe?» [34].
È opportuno rammentare che il programma approvato nel 1880 dalla Federazione del Giura tra l’altro prevedeva l’organizzazione delle forze insurrezionali e la costituzione di una serie di commissioni che gestissero la sicurezza contro i nemici della rivoluzione, assumessero il controllo del capitale sociale dopo la distruzione dei titoli di proprietà e le opportune confische, e tutta una serie di incombenze per la gestione sociale della società organizzata. Se non era dittatura del proletariato .... 
In aggiunta a quanto detto c’è da riflettere sul problema della transizione alla società comunista, assumendo come dato non controverso lo sviluppo dato da Marx alla questione politica dopo i fatti della Comune. Il tema non si esaurisce con l’abbattimento delle strutture statuali e la loro sostituzione con assetti organizzativi della società in cui il flusso del potere non sia più dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto. Questo evento rivoluzionario non determina in sé e per sé il passaggio alla società comunista, bensì apre necessariamente una fase di transizione (se non piace, il nome è sostituibile, magari con «intermedia»). E al riguardo vanno affrontati almeno due punti problematici, non risolvibili dall’oggi al domani.
Innanzi tutto il passaggio qualitativo dall’uomo “vecchio” della società fondata sul dominio all’uomo “nuovo” della società rivoluzionaria. Tema non affrontato adeguatamente da Bakunin. Il detto marxiano secondo cui l’essere individuale è determinato dalle sue materiali condizioni sociali esprime una valutazione realista, ma dal canto suo l’impostazione di Bakunin risulta condizionata da un’ottica eccessivamente ottimista, e in definitiva un po’ semplicista. La sua etica, in fondo, era di tipo naturalistico e in essa il male in definitiva veniva collocato in una sfera estranea all’applicazione delle leggi naturali. C’è da tenere conto – ferme restando le variabili filosofiche – che l’anarchismo rivoluzionario richiamantesi a Bakunin, riguardo alle pulsioni socialmente negative degli esseri umani manterrà un rilevante deficit nel mettere a frutto le progressive scoperte delle scienze umane in ambito psicologico e sociologico. Ivi compresa quell’oscura pulsione verso la servitù volontaria su cui già nel sec. XVIII Étienne De la Boétie aveva messo in guardia (invano) [35]
Bakunin imputava a Marx la mancanza di considerazione per aspetti della natura umana come gli istinti e il temperamento; nonché per i caratteri specifici acquisiti da ogni popolo come prodotti naturali di svariate cause etniche, climatiche, storiche ed economiche. E tra questi caratteri lo spirito di ribellione nei suoi differenti gradi di sviluppo. Il problema è che Bakunin sopravvalutava quest’ultimo elemento a scapito di qualcosa che invece per Marx era essenziale: l’educazione politica delle masse, lo sviluppo della coscienza di classe, senza la quale i lavoratori non focalizzano adeguatamente il fatto che la loro condizione di sfruttamento è un dato fisiologico del sistema dominante, e quindi sono facile preda di manovre riformistiche nel segno della compatibilità col sistema stesso Marx aveva ben chiara la non riducibilità della coscienza di classe al mero istinto di ribellione, di per sé insufficiente a contrastare la propaganda ideologica della borghesia finalizzata a fare intendere che il suo sistema socio/economico è il vertice della libertà e della giustizia.
Si tenga presente che se in ambito più specificamente marxista il problema della difesa di una rivoluzione inizialmente vittoriosa verso i nemici esterni e interni non ha mai suscitato problemi di natura teorica, oltre che pratica, invece sul versante anarchico la cosa spesso e volentieri sia stata impostata in un modo pericolosamente ottimistico/volontarista anche da settori definitisi rivoluzionari: si pensi alle assurde elucubrazioni di un Errico Malatesta sulla necessità che la rivoluzione abbia l’appoggio della quasi totalità del popolo, o alla paralisi operativa dei vertici della spagnola Cnt-Fai di fronte a una prospettiva o – peggio ancora – a una realtà rivoluzionaria in cui non fosse coinvolta la stragrande maggioranza della popolazione di un paese. Che poi, in concreto, militanti libertari abbiano dato risposte realiste d’altro segno è questione diversa.
Tornando al problema della transizione, alla critica bakuninista all’azione per la conquista del potere statale mancava l’elaborazione di un progetto organico – sia pure a fini indicativi – contenente una concreta e chiara parte propositiva: riguardo a ciò le linee di fondo esistevano, ma molto restava ancora da esplicitare. Questo è stato realizzato solo successivamente: si pensi solo a Il Comunismo Libertario. Il regime di transizione di Christian Cornelissen, dell’inizio de secolo scorso, o a Il comunismo libertario dell’anarchico spagnolo Isaac Puente Amestoy, che prima della guerra civile ha delineato un dettagliato progetto/proposta di strutturazione dell’auspicata società libertaria.
Bakunin non era uno sciocco sognatore, e in più – da buon cospiratore – sapeva benissimo quale fosse il valore dell’organizzazione. Con la conseguenza che era ben lungi da lui concepire una società rivoluzionaria disorganizzata. Ben sapeva altresì che lo Stato (monopolista assoluto della forza e della produzione di norme) non è l’unica forma possibile di organizzazione sociale; semmai è un’organizzazione sovraordinata alla società per dominarla nell’interesse delle classi dominanti. In realtà il corollario della posizione di Bakunin non poteva che consistere nella realizzazione di forme dinamiche di democrazia proletaria; in una autorganizzazione della società, come già detto, dal basso nella quale il flusso del potere fosse invertito rispetto all’assetto di tipo statuale: cioè non più dall’alto verso il basso bensì, viceversa, dal basso verso l’alto.
Tuttavia nell’elaborazione bakuninista non era palese la consapevolezza delle inerenti complessità operative. E in assenza di ciò quella impostazione era suscettibile dell’accusa di astrattismo e di automatismo semplicistico. Su questa linea negativa furono, per esempio, il Programma degli Anarchici del 1920 e molti scritti di Malatesta, che ci offrono il quadro di una rivoluzione che “in tempo reale” abbatte il tiranno/Stato e pone le basi per una società libertaria la cui difesa dissidenti nostalgici del regime borghese e controrivoluzionari non presenterebbe soverchie difficoltà. Nella galassia anarchica, inoltre, la corrente individualista è stata veicolo di germi ideologici piccolo-borghesi, e il ricorso a un certo confusionismo terminologico è ancora tale da ricordare il detto di Nanni Moretti
«chi parla male, pensa anche male».
Questo confusionismo ha ulteriormente fatto sì che spesso non ci si capisca fra marxisti e anarchici, e spesso nemmeno fra anarchici. Un esempio macroscopico si ha quando in discorsi anarchici appare come bestia nera il concetto di «potere»: classico caso di una parola diventata eteronoma, accomunando situazioni fra loro irriducibili. Infatti ci si dimentica che il potere è in realtà una funzione sociale regolatrice, oppure l’insieme dei processi attraverso cui la società si autoregola, producendo norme e facendole rispettare per la sua sopravvivenza; l’autorità invece si riferisce alle facoltà e capacità decisionali, la cui ragion d’essere è certo maggiore in una società complessa; e infine il dominio è il monopolio del potere esercitato da una minoranza (politica e/o economica) tale da escludere dal suo esercito il resto della società. Chiarito ciò, va da sé che per un anarchismo che non voglia correre il rischio di incorrere nella categoria che Camillo Berneri definì «anarco-cretinismo», il vero nemico è solo il dominio, mentre potere e autorità sono funzioni sociali in sé neutrali e ineliminabili in qualsivoglia contesto sociale, compreso quello libertario.
Spesso negli ambienti anarchici non rivoluzionari è sfuggito un fatto ineluttabile per ogni rivoluzione sociale: cioè che essa si deve confrontare con una serie di fattori che non le consentono di essere un evento istantaneo, bensì un processo di lunga durata. In questo lasso temporale i problemi della rivoluzione non attengono solo allo Stato e agli assetti capitalistici: i nemici da affrontare sono sempre interni ed esterni. Tra quelli interni oltre ai signori del capitale e ai loro mercenari nell’esercito e nella polizia ci sono anche le masse di cittadini che (indipendentemente dall’essere anche loro vittime del sistema) temono gli esiti rivoluzionari e sono legati a meccanismi ideologici e psicologici che ne fanno degli strumenti delle classi dominanti.
Inevitabilmente la lotta rivoluzionaria per un periodo di durata aprioristicamente indeterminabile non coinvolge la maggioranza degli oppressi, e solo una parte di essi gestirà lo scontro finale, eventualmente contro il resto della popolazione. Lo scontro finale è il momento culminante della lotta di classe, e non viene mai preceduto da votazioni per verificare se vi sia o no il consenso della maggioranza del popolo. Semplicemente, raggiunto un certo grado di intolleranza allo sfruttamento, alcuni sfruttati decidono di dire “no” all’ordine socio/economico che li sfrutta; e se ne hanno la forza ci riescono..
Quando lo sviluppo della lotta abbia raggiunto elevati livelli quantitativi e qualitativi si determina una specie di “spazio” virtuale in cui vengono costruiti gli elementi della nuova società. E allora la lotta punta all’estensione progressiva di questo spazio: lì si formano le strutture del potere proletario, sempre più operative nella misura in cui o si debilita o viene sostituito l’apparato statale/capitalista. Qui nascono gli organismi della gestione popolare, della riorganizzazione della società con gli strumenti di massa per combattere i nemici di classe. Con la demolizione delle precedenti istituzioni politiche, disfatto il potere dello Stato, il nuovo potere popolare si afferma e si estende.
Per finire una considerazione che reputiamo non peregrina: la I Internazionale - al di là del ruolo da essa svolto e dai problemi di prassi teorica sollevati – ci lascia un legato la cui validità non risulta intaccata dl tempo trascorso e dagli avvenimenti intervenuti fino a oggi; questo legato (inserito nelle considerazioni poste a premessa degli Statuti), proclama che
«l’emancipazione della classe operaia dovrà essere opera dei lavoratori stessi».
Infatti solo l’emancipazione autorealizzata è definibile tale, altrimenti si resta in quella dimensione giacobina a cui si deve la frase-ossimoro
«costringere a essere liberi».
Il principio sancito dalla I Internazionale si contrappone alla valenza data dal bolscevismo al partito e al cosiddetto Stato operaio; da esso deriva inoltre che l’organizzazione politica dei lavoratori vale solo se opera quale strumento della classe, senza vedere in termini di fatalità – senza il partito-guida, metafisico possessore del vero – la deriva tradunionista della classe medesima.
Un grande militante rivoluzionario, il francese Daniel Guérin - a cui si deve la frantumazione dello stereotipo di una certa volgata propagandista che presentava Bakunin come un arruffapopoli inconcludente, pasticcione e di poco cultura – ha messo in evidenza un aspetto da non trascurare, e da cui partire, a proposito di certi pregiudizi e giudizi di Bakunin su Marx:
«Attribuire a Marx una concezione tanto autoritaria, significa certamente forzare il pensiero di Marx. Ma ci sembra oggi, rileggendolo, che Bakunin avesse previsto il bolscevismo e, quindi, la III Internazionale- Per quanto riguarda il problema dello Stato, il grande libertario non si è dimostrato meno profetico. I socialisti dottrinari «non sono mai stati, e non lo saranno, nemici dello Stato, ma, al contrario ne sono stati e ne saranno sempre i più zelanti campioni» poiché aspirano a «mettere al popolo nuovi finimenti» e ad «ammucchiare [su di lui] i vantaggi delle loro misure governative» (...) Noi verremo veramente a capo di questo flagello, e ne libereremo finalmente il mondo, accelerando il momento in cui sia realizzerà – attraverso l’esercizio della democrazia diretta operaia, dell’educazione e dell’autogestione – la fusione annunciata da Lassalle della scienza e della coscienza con la classe operaia» [36].
A dire il vero un primo ma dimenticato contributo al corretto inquadramento del contrasto fra i due grandi rivoluzionari c’era stato ai primi del secolo scorso, da parte di Franz Mehring nella sua opera sulla vita di Marx (che non a caso sul punto fu criticato da Karl Kautsky (il «papa rosso» della II Internazionale). Questo specifico aspetto del predetto libro fu esaminato da quell’acuto studioso dell’anarchismo che fu Pier Carlo Masini. E vale la pena citarne un passaggio:
«Bakunin, secondo Mehring, interpretava determinate istanze del movimento operaio, e l’anarchismo costituiva la formulazione politica di queste istanze. (...) Qui un ceto operaio ben pagato, con diritti politici che gli consentivano di partecipare alla lotta parlamentare, ma che lo attiravano anche in ogni sorta di discutibili alleanze con partiti borghesi; là uno strato operaio mal pagato, privo di diritti politici, che poteva contare soltanto sulla sua nuda forza.  (...) Non era una caso che Bakunin contasse un certo numero di seguaci che si sono acquistati grandi meriti nella lotta di emancipazione del proletariato. Liebknecht non apparteneva certo al numero degli amici di Bakunin, ma al tempo stesso al congresso di Basilea si pronunciò per l’astensione politica almeno con lo stesso fervore di Bakunin. Altri invece erano i più fervidi bakuninisti (...) come Jules Guesde in Francia, Carlo Cafiero in Italia, César De Paepe, Pavel Axelrod in Russia; se poi essi diventarono altrettanto fervidi marxisti, ciò accadde come taluno di loro ha espressamente affermato, non perché essi si siano sbarazzati delle loro precedenti convinzioni, ma solo perché erano legati a cuò che Bakunin aveva in comune con Marx» [37].
Sulla base dall’esperienza della I Internazionale, per concludere, dovrebbero essere recuperati gli elementi che unirono i marxisti e i bakuninisti e assunti come fattori cementanti; andrebbero ripensati a-dogmaticamente i temi del loro scontro con una latitudine mentale ampliata e arricchita da tutto quanto è accaduto nel secolo scorso; sarebbe necessario avere il coraggio di confessare che la rottura fra marxisti e anarchici fu un disastro per entrambi, e comportarsi di conseguenza su un percorso insidiato, però, da quell’oscura pulsione che si chiama “spirito settario”; e infine affrontare gli enormi problemi attuali – aggravati dall’affievolimento del fattore-speranza e dal conseguente entusiasmo nella lotta – utilizzando il contributo teorico di Marx e il suo metodo con spirito libertario. Realizzando, cioè, una dimensione tale da poter dire (con una parafrasi di quanto scrisse Cafiero)
«comunisti libertari perché marxisti, e marxisti perché comunisti libertari».
Se si pensa che tutto ciò sia troppo, allora il passato si ripeterà, e probabilmente – per dirla con Marx – in termini di farsa; sperando che almeno la tragedia interna alle fila rivoluzionarie venga risparmiata.


[1] Tra i fondatori dell’Internazionale c’erano i francesi: Louis Tolain (poi espulso durante la Comune di Parigi, per essere trasmigrato fra le fila della reazione), E. Fribourg (anch’egli uscito durante la Comune) e Charles Limousin, tutti mutualisti proudhoniani, nonché  il collettivista Eugène Varlin (fucilato dall’esercito francese durante la repressione della Comune); e l’emigrato Victor Le Lubez (poi espulso nel 1866); i tedeschi Karl Marx, Georg Eccarius (prima marxista poi tradunionista), Friedrich Lessner (che sarà tra i fondatori del Partito Laburista Indeipendente britannico); l’italiano Luigi Wolff (mazziniano, successivamente smascherato quale agente della polizia di Napoleone III); i britannici Geroge Odger (schieratosi contro la Comune), William Cremer (poi diventato membro liberale del parlamento di Londra) e l’owenista Weston; il polacco Bobczinski; gli svizzeri Hermann Jung (anch’egli in seguito diventato tradunionista), Becker e Dupleix. La riunione fondativa fu presieduta dal filosofo positivista Spencer Beesley. Fu nominato un Consiglio Generale provvisorio di cui fecero parte anche Marx, Eccarius, Odge, Wolff, Cremer (segretario generale) e Le Lubez. Vennero anche designati i segretari corrispondenti per i singoli paesi. Un sottocomitato (di cui fece parte Marx) ebbe l’incarico di redigere gli Statuti dell’Internazionale. Cfr. D.B. Rjazanov, Alle origini della Prima Internazionale, Lotta Comunista, Milano 1995. 
[2] D. Guérin, L’anarchismo dalla teoria alla pratica, Samizdat, Pescara 1998, p. 23.
[3] Ibidem, p. 22.
[4] Fu tenuta in sostituzione del previsto V Congresso, a motivo dei coevi eventi internazionali.
[5] P.C. Masini, Gli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, Milano 1969, p. 59 
[6] P.C. Masini, Gli anarchici cit., p. 69.
[7] Ibidem.
[8] In D. Guérin, Né Dio né padrone, Jaca Book, Milano 1971, vol. I, pp. 233-247,
[9] Ibidem, pp. 213-26. Su questo storico dibattito e la discussione riguardo all’«organizzazione sociale», si veda Roberto Massari, Le teorie dell’autogestione, Jaca Book, Milano 1974, tutto il cap. 4.
[10] Al Congresso di Berna dell’ottobre 1876 fu preso atto di una situazione sfavorevole di notevole ampiezza: le federazioni belghe si erano ritirate; in Francia c’era stato l’allontanamento, in ciò seguiti da molti militanti, degli ex comunardi Guesdes e Malon; i gruppi spagnoli si erano indeboliti; in Italia operavano i contraccolpi del fallito tentativo di insurrezione a Bologna nel 1874; i russi erano ancora pochi. Solo la Federazione del Giura era attiva e in buona salute, ma non era sufficiente a tenere in piedi l’Internazionale Antiautoritaria. Così al Congresso di Verviers del settembre 1877 fu decisa lo scioglimento dell’associazione, seppure con la posizione negativa dei giurassiani. Questi ultimi fino al 1880 cercarono di ricostituire un’Internazionale libertaria, ma senza successo. Per molti anarchici cominciò la nefasta stagione dell’azione diretta, fatta di bombe, attentati e banditismo sociale urbano.
[11] Cfr. D. Guérin, L’anarchismo, cit., pp. 73-81.
[12] Alla cui base ci sono le opere di due pensatori che nulla hanno a che fare con l’anarchismo rivoluzionario, ma semmai sono esponenziali di una dimensione individualistico-borghese: Max Stirner e Benjamin J. Tucker. Quest’ultimo fu individualista anche in economia. I suoi epigoni contemporanei saranno quel tipico fenomeno statunitense che risponde al nome di «anarcocapitalismo» (sic!).
[13] Ibidem, p. 226.
[14] Indicativo delle possibilità di confluenza per i rivoluzionari attenti alle dinamiche storiche della lotta di classe è il fatto che nel 1923 Monatte abbia aderito al Pcf sulle posizioni di Boris Souvarine; da quel partito venne espulso l’anno successivo nel corso della purga contro gli elementi sospetti di trotskismo. Resta vero il detto che gli anarchici sono un problema per l’anarchismo.
[15] L’anarchismo cit., p. 81.
[16] C. Cafiero, Compendio del Capitale, Demetra, Bussolengo 1966.
[17] Oggi il termine libertario viene usato indifferentemente come sinonimo di anarchico e viceversa. Questo dato di fatto non implica che tale uso sia semanticamente corretto; peraltro definirsi libertari ha il vantaggio di non incorrere nelle connotazioni negative da tempo inerenti all’aggettivo anarchico. Commentava Guérin – nel suo citato libro L’anarchismo dalla teoria alla pratica (p. 12) – che
«Proudhon e Bakunin presero un piacere perverso a scherzare sulla confusione creata dalle due accezioni antinomiche del termine: l’anarchia era, per loro, nello stesso tempo, il più gigantesco disordine, la disorganizzazione più completa della società e, dopo questo mutamento rivoluzionario gigantesco, la costruzione di un nuovo ordine, stabile e razionale, fondato sulla libertà e la solidarietà».
[18] C’è un’analogia con una presa di posizione di Sigmund Freud. Si narra che – all’inizio del boom della psicanalisi – prima di cominciare una conferenza si accese un sigaro, operazione che – se fatta bene – non si esaurisce in un secondo. Allertato dal mormorio del pubblico, sentì il bisogno di specificare:
«Checché ne pensiate, questo per me è solo un sigaro, senza alcun riferimento fallico».
[19] M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna 1981, p. 3.
[20] Tanto che Maximilien Rubel nel suo citato libro ha messo in rilievo profili anarchici nel pensiero marxiano.
[21] Per Marx Bakunin era un intrigante e per Bakunin Marx era una specie di incarnazione dell’autoritarismo.
[22] K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 87-89.
[23] In K. Marx-F. Engels, Sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1949, pp. 72-3.
[24] Citato in D.Guérin, Né Dio cit , Jaca Book, vol. I, pp. 191-2.
[25] Citato in D. Guérin, op. cit., pp. 193-4.
[26] V. Lenin, Stato e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 99.
[27] Citato in D. Guérin, ibidem,  p. 194.
[28] K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 42, 43 e 45.
[29] Ibidem, p. 44.
[30] F.  Mehring, Vita di Marx, Editori Riuniti, Roma 1972.
[31] Anche se discutibilissimo  come impostazione, è interessante per i dati che fornisce il libro di Gino Cerrito, Il ruolo dell’organizzazione anarchica, Samizdat, Pescara 1998. In senso totalmente contrario, invece, La Piattaforma Organizzativa dei Comunisti Anarchici, Giovane Talpa, Milano 2007.
[32] M. Bakunin, Azione diretta e coscienza operaia, La Salamandra, Milano 1977, p. 77.
[33] Che è cosa ben diversa dal costruire uno Stato totalitario.
[34] P.F. Zarcone, Spagna libertaria. Storia di collettivizzazioni e di una rivoluzione sociale interrotta (1936-1938), Massari, Bolsena 2007, p. 177.
[35] E. De la Boétie, La servitù volontaria, Anarchismo, Catania 1978.
[36] D. Guérin, Per un marxismo libertario, Massari, Bolsena 2008, pp. 164-6.
[37] P.C. Masini, Il conflitto fra Marx e Bakunin in un’opera di Franz Mehring, nella pagina web: www.leftcom.org/.../il-conflitto-fra-marx-e-bakunin-in-un-opera-di-franz-mehring.

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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.