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sabato 27 agosto 2016

IZZAT IBRAHIM AD-DURI: MISTICO SUFI, SOCIALISTA ARABO E LAICO, MEMBRO DELL'ISIS, di Pier Francesco Zarcone

In uno degli ultimi articoli sulla Turchia si è accennato alla confraternita della Naqshbandiyya (una delle tante riemerse dalla clandestinità dopo l'allentamento delle maglie repressive kemaliste) e a un noto membro di essa, collaboratore di Saddam Husayn e traghettatore di ex baathisti all'Isis, che risponde al nome di Izzat Ibrahim ad-Duri. La storia di questo personaggio è interessante per gli squarci che consente di aprire sulle vicende del Vicino Oriente, sulla multiformità delle orientamenti politici e delle ideologie religiose, su quanto siano erronee e pericolose le generalizzazioni in senso "buonista" verso il mondo dei Sufi, e infine su possibili proiezioni in ordine alla Turchia di Erdoğan. Prima di affrontare la vita del nostro personaggio è utile dire qualcosa sulla Naqshbandiyya e sulle confraternite sufi in genere, ai fini di un miglior inquadramento.

NAQSHBANDIYYA E CONFRATERNITE SUFI

La Naqshbandiyya - dedita alla difesa dell'identità islamica - è una confraternita antichissima, fondata vicino a Bukhara nel XIV secolo da Baha ad-Din Naqshband, poi diffusasi in India e nell'Impero ottomano. I sultani di Costantinopoli in genere ne furono membri. Tutte le confraternite turche, essendo considerate reazionarie culturalmente e politicamente nonché ostacolo alla modernizzazione, vennero sciolte da Kemal Atatürk nel 1925, spogliate dei beni e perseguitate. Tutte sopravvissero in attesa di tempi migliori occultandosi, e anche la Naqshbandiyya, che però non poté evitare l'eliminazione fisica di uno dei suoi più noti sceicchi, Mehmet Esad (1847-1931), da parte dei kemalisti.
La Naqshbandiyya è un potente soggetto attivo nell'attuale islamizzazione della società turca, e questo getta ombre preoccupanti sullo scontro che si va profilando fra Turchia laica e Turchia islamica. Gli oscuri rapporti tra questa confraternita e le peggiori componenti del radicalismo islamista, come pure la maggiore contiguità di Erdoğan con la Naqshbandiyya rispetto agli stessi Fratelli Musulmani, portano a inquadrare con maggiore precisione le scelte della politica estera di Ankara nel Vicino Oriente fino al fallito golpe di giorni fa; come pure a meglio dimensionare l'errore dell'Occidente a voler considerare l'Akp di Erdoğan alla stregua di un'innocua similcopia della nostra Democrazia Cristiana in salsa islamica.
Il mondo delle confraternite sufi è assai articolato, complesso e tutt'altro che omogeneo, e non sempre corrisponde agli edulcorati luoghi comuni diffusi in Occidente. Innegabilmente si tratta di gruppi animati dal desiderio di realizzare una via mistica all'interno dell'Islam sunnita ed effettivamente hanno operato come strumenti di rinvigorimento morale; tuttavia si rischia l'abbaglio quando siano considerati, indiscriminatamente, pacifiche e innocue organizzazioni di puri spiritualisti. La più nota tra queste confraternite, la Mevelviyya (quella dei dervisci ruotanti) - fondata da Jalal ad-Din Rumi (1207-1273) - corrisponde alla generale immagine diffusa e la sua posizione è espressa dalla quartina posta all'ingresso della sua sede di Konya (Anatolia):
«Vieni, vieni, chiunque tu sia vieni. Sei un ateo, un idolatra, un pagano? Vieni. Il nostro non è un luogo di disperazione, e anche se hai violato cento volte una promessa… vieni»;
nonché da massime coraniche come
«(2º, 62) Sì, i Musulmani, gli Ebrei, i Cristiani e i Sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel Giorno ultimo e compiuto opera buona, per costoro la loro ricompensa presso il Signore. Su di essi nessun timore, e non verranno afflitti; (5º, 68) Dì: Genti del Libro, sarete sul nulla fintanto che non seguirete la Thorà, il Vangelo e ciò che vi è stato rivelato dal vostro Signore; (18ª, 29) La verità emana dal Signore. Creda chi vuole, non creda chi non vuole».
Ad ogni modo, per quanto i legalisti islamici guardino con sospetto al Sufismo accusandolo di antilegalismo, vale a dire di atteggiamento disinvolto verso la Sharia, in realtà i Sufi considerano il rispetto per la Sharia come il primo pilastro della vita religiosa, ed è tutt'altro che raro riscontrarne una rigida osservanza. Al fraintendimento non è estranea la distinzione (peraltro anche degli Sciiti) tra interpretazione legalista della Sharia (zahir) e sua interpretazione esoterica (batin), cosa che può far pensare al superamento della prima a opera della seconda. Ma così non è, in quanto la Sharia non viene affatto abrogata. Importante è tener presente che stiamo parlando di un mondo privo di posizioni univoche riguardo al rapporto tra Islam e cultura, tra politica e modernità; ragion per cui non devono stupire i niente affatto isolati casi di membri di confraternite che hanno partecipato e partecipano anche a movimenti islamici radicali. Seppure l'obiettivo primario dei Sufi sia il cosiddetto "grande jihad" (al-jihad al-akhbar), ovvero lo sforzo per la realizzazione spirituale nella via di Dio, questo non vuol dire che nel corso dei secoli essi si siano astenuti dal partecipare attivamente al "piccolo jihad" (al-jihad al-asghar), cioè impugnando le armi. Il colonialismo italiano in Libia dovette vedersela sul campo con i membri della Senussiyya, cioè appunto di una confraternita sufi. Nel mondo ottomano, poi, c'è stato il fenomeno della confraternita Bektashiyya (Bektaşi Tarîkatı): probabilmente la più eterodossa di tutte, ma anche la confraternita dei Giannizzeri, vale a dire di risoluti e fanatizzati combattenti dell'Islam.

LA CAMALEONTICA VITA ESEMPLARE DI IZZAT IBRAHIM AD-DURI

Dato per morto dagli statunitensi nel 2015, pare invece che questo settantaquattrenne personaggio goda ancora di buona vita. Il nome in sé può anche non risvegliare ricordi, ma la sua immagine è nota: si tratta del generale iracheno dalla pelle bianchissima con baffoni e capelli rossi. Più simile a un anglosassone. Si deve a lui la conquista di Mosul (Ninive) nel 2014 da parte dell'Isis. Ecco già un paradosso: l'ex vice di Saddam nel partito socialista Baath dell'Iraq a braccetto con i tagliagole dello pseudocaliffato. Prima di questa ultima fase era stato uno dei capi laici dell'insurrezione sunnita contro gli Usa. Folgorato sulla "via di Damasco"? Probabilmente no; e qui veniamo a contatto col mondo della politica interaraba: un mondo ambiguo, torvo, spietato, intessuto di tradimenti continui perché le scelte di campo sono del tutto contingenti e non sempre rapportabili a una qualche coerenza ideologica, essendo strumentale anche l'ideologia. È un ambiente che sfugge alla comprensione in base agli schemi puramente razionali, un ambiente non facilmente decifrabile. Quando si pensa di averlo decifrato, allora il rischio di abbagli colossali è pressoché garantito.
Nonostante le apparenze e un mare di propaganda, la storia tanto di ad-Duri quanto dello stesso regime baathista in definitiva si intreccia con quella del radicalismo islamico, in un quadro emblematico delle ambiguità del conflitto politico in Mesopotamia. Durante il regime di Saddam, ad-Duri si collocava su posizioni laiche socialisteggianti (alla maniera araba), ma nello stesso tempo già faceva parte dell'ordine sufi dei Naqshbandi. Non necessariamente una contraddizione, perché molti membri di questa confraternita hanno doppie o plurime appartenenze, oltre a essere comuni i casi di occultamento (taqiyya) delle proprie reali convinzioni personali. Invece potrebbe essere l'assurgere di ad-Duri a esponente militare di spicco del jihadismo a sollevare problemi da noi occidentali.
Un primo approccio alla soluzione può venire dalla frequenza nei regimi militari arabi - e particolarmente in quelli iracheni - di una certa "fluidità" delle linee di demarcazione con il mondo della religione: d'altronde si tratta di contesti in cui gli elementi identitari di base sono l'appartenenza all'Islam sunnita (infatti, a parte la Siria degli Assad, si è sempre trattato di regimi militari derivanti da contesti sociali sunniti), alla propria tribù e alla famiglia d'origine. Tutto il resto dipende dai casi e dalle circostanze, notoriamente variabili. Tale fluidità era emersa chiaramente in Iraq negli anni '80 (ma non sono stati in molti a rifletterci), cioè quando Saddam ricorse alla più vetera retorica islamica sunnita durante la lotta contro l'Iran sciita di Khomeyni, proprio mentre in Occidente era esaltato come antemurale del radicalismo islamico. Nel 1990 tuttavia l'invasione del Kuwait fu anche una sfida palese a quel bastione sunnita radicale che è l'Arabia Saudita. La scusa però era pronta: in fondo si trattava di una monarchia reazionaria alleata degli infedeli (kafir) occidentali. Nei disastrosi anni successivi alla prima Guerra del Golfo e in piena crisi politica, il regime di Saddam si islamizzò vieppiù, promuovendo le cosiddette "Campagne per la fede" per non isolarsi dal mondo sunnita, campagne che reintrodussero l'osservanza di rigidi precetti islamici, portarono al ripristino dell'amputazione della mano per i ladri, all'inserimento nelle bandiere irachene della frase «Allahu Akhbar» e alla proibizione dell'uso di alcolici per i funzionari del Baath, e ovviamente favorirono la ripresa dell'estremismo religioso. Ecco che in Iraq si era preparato di fatto un ambiente favorevole ai radicali sunniti e poi all'Isis. Con l'invasione statunitense del Paese - dalle origini dopo la Grande Guerra e fino alla caduta del regime di Saddam, dominato dalla minoranza sunnita a scapito della maggioranza sciita - per i Sunniti finiva la "pacchia", essendo diventati gli Sciiti maggioranza non solo demografica ma anche politica. Per difendersi e cercare di recuperare il perduto potere, i Sunniti non potevano certo ricorrere agli strumenti ideologici e politici del panarabismo, del nazionalismo e del socialismo, bensì a ideologie islamiste.
Intanto già dal 2002 era affluito in Iraq un certo numero di jihadisti tra cui, nella primavera dello stesso anno, il pluriricercato al-Zarqawi, capo del ramo iracheno di al-Qaida. Nelle zone settentrionali del paese (la no-fly zone) i jihadisti collaborarono ampiamente col regime contro le milizie curde. A seguito dell'occupazione statunitense ad-Duri si impegnò nel coordinamento e nel finanziamento di tutte le formazioni guerrigliere e terroriste di formale origine sunnita, cioè sia laiche sia jihadiste, e la resistenza all'occupazione acquisì subito i connotati del conflitto religioso con gli Sciiti. In questo scenario si collocano le gesta - praticamente ignote al pubblico italiano - del ramo militare della locale Naqshbandiyya, cioè L'Armata degli uomini della Naqshbandiyya (Jaysh Rajal al-Tariqa al-Naqshbandiyya, Jrtn), emerso il 30 dicembre del 2006, proprio la notte prima dell'esecuzione di Saddam e grazie all'opera di ad-Duri. Quest'organizzazione aveva lo scopo formale di restaurare il regime del Baath, mentre quello sostanziale e non dichiarato consisteva nell'unione di tutte le forze di origine sunnita contro Sciiti e occupanti occidentali. Il 3 ottobre dell'anno successivo ad-Duri fondò il Comando supremo per il Jihad e la Liberazione, un'alleanza che riuniva 55 fazioni armate (di cui la Jrtn era quella di maggiore importanza) e stavolta si rifaceva all'ideologia della Naqshbandiyya. L'alleanza con al-Qaida era ormai un dato di fatto. Dopo il ritiro delle truppe Usa nel 2011 l'azione di ad-Duri si volse contro il governo dello sciita al-Maliki, poi travolto dall'improvvisa irruzione dell'Isis.
Ad ogni modo l'alleanza fra ex baathisti e sanguinari jihadisti non risulta essere delle più tranquille, se a gennaio di quest'anno il Kurdistan Democratic Party ha rivelato che nel centro di Mosul membri della Naqshbandiyya erano stati giustiziati dai miliziani dell'Isis. A prescindere da "incidenti" del genere, il collegamento tra ex laici del Baath e jihadisti, avvenuto nel segno formale della riscossa sunnita, risponde a mere finalità di potere politico ed economico.
Lasciare la parola all'interessato è il modo migliore per far capire tanto il personaggio quanto l'ambiente di appartenenza, e allora non c'è niente di meglio dell'appello diffuso da ad-Duri dopo la presa di Mosul da parte dell'Isis:
«Figli della grande Patria Iraq! Combattenti Mujahiddin! Io vi saluto dalla terra del Jihad e vi annuncio la grande notizia della vittoria ottenuta dal nostro grande popolo dell'Iraq e dalle sue eroiche forze, attraverso una lotta di 11 anni, costata la vita di due milioni di martiri. Quelle della liberazione di Ninive, capitale storica e di Salah ad-Din, madri degli eroi, sono considerate le più belle giornate dopo le giornate della conquista islamica da parte del molto amato eletto Muhammad (Pace e Benedizione su di Lui) ed i suoi nobili compagni. La liberazione di Ninive e di Salah ad-Din e le successive vittorie militari in Anbar e Diyala sono una svolta importante nella storia della nazione per la sua libertà, la sua unità e la sua prosperità, anche per le generazioni future. Che Dio benedica i rivoluzionari del popolo, i capi delle tribù patriottiche per la liberazione totale dell'Iraq arabo e musulmano. Che Dio benedica gli eserciti e le fazioni della rivoluzione, l'esercito degli uomini Naqshbandi, i combattenti dell'esercito eroico patriottico ed i combattenti del comando supremo dell'esercito del Jihad, della liberazione e della salvezza nazionale, gli uomini delle brigate della rivoluzione del 1920, quelli dell'esercito dei Mujahiddin, alcuni gruppi di Ansar as-Sunna e l'avanguardia di quelli, gli eroi e cavalieri di al-Qaida e dello Stato islamico. (…) Congratulazioni per questa immensa vittoria! Vi invito ad unirvi, a sostenere e a difendere la vostra rivoluzione e a preservarla con tutto ciò che possedete, ciascuno secondo le sue possibilità ed il suo rango. Figli della nostra Patria gloriosa! (…) Figli del nostro popolo del grande Iraq! Uomini amanti della libertà per la nostra Nazione! Militanti baathisti nella nostra grande patria araba! Sì, per 11 anni il vostro eroico Partito è stato esposto all'annientamento totale e lo è ancora. (…) Noi analizziamo e consideriamo i vantaggi e le vittorie realizzati dalla nostra rivoluzione benedetta dal primo giorno della rivoluzione armata e fino al giorno della liberazione di Ninive e Salah ad-Din, dalla sollevazione e dalla rivoluzione e tutti questi sacrifici formidabili offerti per giungere a questi mirabili successi. (…) Qui, io mi rivolgo a quanti galoppano dietro il processo politico immondo elaborato dai servizi segreti e dico: tutto quello che si svolge nei corridoi di quella pagliacciata, la sua costituzione, il suo parlamento, il suo esercito, le sue milizie e le sue elezioni, non è che una buffonata (…) la metà della patria è liberata e la liberazione di Baghdad è questione di giorni, affinché essi collaborino ciascuno secondo i propri mezzi, per liberare la loro Patria, perché non ci sarà consolazione od onore, per i suoi uomini, senza la sua liberazione e la sua indipendenza. (…) Oggi non avete più scuse davanti a Dio, al popolo e alla storia e davanti agli artefici delle vittorie storiche, i rivoluzionari eroi del popolo. (…) È necessario che la nostra vittoria globale sia basata su fondamenta e supporti inevitabili, sottrarsi a ciò ci condurrà alla regressione e alla perdita delle nostre conquiste e successi. La prima base: la fede in Dio e nella giustezza della nostra causa, e le nostre lealtà e fedeltà verso di essa. Secondo: la nostra unità, perché la nostra divisione è il peggiore dei nemici ed il più pericoloso per l'avvenire della nostra marcia del Jihad. E per la nostra unità dobbiamo mettere da parte le nostre divergenze, quali che siano, perché il nostro obiettivo, la liberazione dell'amatissimo Iraq dalle grinfie della cancerosa occupazione iraniana safavide, deve prevalere su tutto. Terzo: aggrapparsi al popolo, tutto il popolo (…). Il popolo è il luogo d'accoglienza sicura e fedele del Jihad e dei Mujahiddin ed è il sostegno fondamentale ed unico del nostro Jihad. Noi preghiamo i nostri fratelli nelle fazioni islamiche e del Jihad di superare i confessionalismi, le etnie, i regionalismi e le contrapposizioni cittadini-campagnoli».

SFORZANDOCI DI CAPIRE

Non sarebbe corretto attribuire l'estremo confusionismo ideologico di questo testo a un delirio di ad-Duri: farlo lascerebbe irrisolto il problema della presenza tra le fila dell'Isis di altri militari e ufficiali delle Forze armate di Saddam, che fino a non molti anni fa erano membri fanatici del ramo iracheno del partito Baath, il cui pomposo nome completo è Partito del Risorgimento Arabo Socialista (Hizb al-Ba'ath al-'Arabii al-Ishtiraakii), i cui padri fondatori agli inizi degli anni '40 furono Zaki al-Arsuzi (alawita), Michel Aflaq (cristiano ortodosso) e Salah ad-Din al-Bitar (musulmano sunnita), la cui eterongeneità religiosa già esprimeva il carattere laico e non confessionale di quel partito. Nel corso del tempo accesi contrasti ideologici e di potere separarono il ramo siriano e quello iracheno, al punto che durante la guerra Iran-Iraq il governo baathista della Siria sostenne l'Iran khomeynista indipendentemente da qualsiasi motivazione ideologica ricavabile dall'ideario del Baath.
In virtù del suo passato politico ad-Duri è il più noto baathista passato all'Isis, ma vi si trova in ottima compagnia: per esempio, con Abu Muslim al-Afari al-Turkmani, ex colonnello dell'Intelligence di Saddam e membro della Guardia Repubblicana; con Abu Ali al-Anbari, ex generale dell'esercito; con Abu Ayman al-Iraqi, ex colonnello dell'Intelligence dell'Aviazione; e via dicendo. Generalmente alla base della deriva islamista dei baathisti vengono posti due avvenimenti, che ad ogni modo non la spiegano davvero (semmai spiegano la decisa resistenza armata contro l'occupazione statunitense e gli Sciiti locali): l'avventato scioglimento delle Forze armate irachene voluto dal proconsole Usa subito dopo l'invasione, e la decisione di effettuare la definitiva "de-baathizzazione" delle risorte Forze armate - escludendo dagli incarichi anche i militari riabilitati dagli statunitensi, voluta nel 2011 dall'allora Primo Ministro, lo sciita Nuri al-Maliki, grande responsabile dell'irruzione dell'Isis.
Circa la presenza baathista nell'Isis le scuole di pensiero divergono, e quindi abbiamo i sostenitori della strumentalizzazione tattica che i baathisti farebbero dell'estremismo religioso, e all'opposto quanti vedono i baathisti usati sì dall'Isis, ma grazie alla loro diffusa radicalizzazione islamista. Ragionando in base ai dati disponibili, escludere tale radicalizzazione potrebbe essere erroneo; semmai la si dovrebbe coniugare con un fenomeno socio-politico per niente esclusivo del Vicino Oriente e noto anche in Europa: il calo della tensione ideologica in un gruppo politico organizzato, fino alla sua scomparsa come asse orientativo dell'azione, a cui consegue il predominio - se il gruppo politico vuole continuare a esistere e ad avere potere - del cinico e camaleontico pragmatismo che ai propri fini utilizza anche ideologie fino a poco prima combattute. D'altro canto, già nel XIX secolo Gaetano Mosca, trattando delle classi politiche, riguardo a esse non parlò di ideologie, bensì di "formule politiche" scelte e usate per conquistare e mantenere il potere (grazie a quelli che poi ci credono). Non sembra che in Iraq sia accaduto qualcosa di molto diverso.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.