L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

PER SAPERNE DI PIÙ CI SONO UNA COLLANA DI LIBRI E UN BLOG IN VARIE LINGUE…

ČESKÝDEUTSCHΕΛΛΗΝΙΚÁENGLISHESPAÑOLFRANÇAISPOLSKIPORTUGUÊSРУССКИЙ

martedì 11 luglio 2017

DONALD TRUMP: «VEDETTE» PSEUDOPOPULISTA DELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO, di Michele Nobile

INDICE: 1. La questione Trump - 2. Donald Trump come vedette della società dello spettacolo - 3. La psicopatologia politica e l’impossibile psicoanalisi di Donald Trump - 4. Come movimento e come regime il populismo è cosa qualitativamente diversa dallo pseudopopulismo di Trump - 5. I contenuti del programma di Trump, per quel che conta, non sono qualitativamente nuovi: particolare è l’intensità con cui sono stati trasmessi - 6. La questione fondamentale trascurata nei discorsi sul populismo o fascismo di Trump: lo stato della lotta fra le classi - 7. Trump come espressione della postdemocrazia - Bibliografia

1. La questione Trump
È normale che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti alimentino aspettative e timori nei confronti di questo o quel candidato al ruolo di leader della superpotenza mondiale. Tuttavia Barack Obama e Donald Trump hanno suscitato reazioni emotive fuori dell’ordinario e cariche di un’enorme valenza politica. Da Obama, il messia nero, tanti si aspettavano la liquidazione del cosiddetto neoliberismo, allora sprofondato nella più grave crisi del dopoguerra, e un nuovo New Deal. A Trump è invece imputato l’intento di voler operare un fondamentale cambiamento del sistema politico degli Stati Uniti, di voler alterare, se non la sacrosanta e più che bicentenaria Costituzione formale, la Costituzione materiale del Paese; da qui i discorsi su un nuovo regime variamente aggettivato: populista, autoritario, bonapartista, criptofascista, fascista… E ciò non soltanto per via delle sue proposte ma - forse ancor più - per l’impressione suscitata dal suo stile comunicativo, dall’immagine che egli ha voluto trasmettere.
Se la memoria non m’inganna un tale livello di emotività, che potrebbe dirsi isterico, non si verificò neanche a proposito delle elezioni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, una coppia che realmente segnò una discontinuità storica. Reagan era un esponente del rinnovato attivismo conservatore della new right repubblicana, designato in una convention che aveva rimosso dal programma del partito il sostegno per l’Equal Rights Amendment - presente dal 1940 - e inserito la proposta di un bando costituzionale dell’aborto: i suoi intenti, quindi, erano chiari. Egli appariva come il visionario di una nuova epoca di prosperità americana mediante la riduzione delle tasse - per i ricchi - e la liberazione delle corporations dalle oppressive regolazioni del big government; il moralista fautore del taglio delle spese per il welfare state, improduttivo alimento dell’ozio e del vizio alle spalle dei cittadini virtuosi; era il «falco» deciso a farla finita con la «sindrome del Vietnam»; l’impavido avversario di quello che poi definì l’«impero del male» e dei suoi accoliti nel mondo; l’amico generoso dei freedom fighters controrivoluzionari; era il capo determinato a far rifluire l’onda lunga del Watergate per restaurare in tutta la sua autorità il ruolo del Presidente - la «presidenza imperiale» - dentro e fuori del Paese1. Tuttavia, per quanto Reagan si collocasse sulla destra dello spettro politico repubblicano, egli non fece gli errori di Goldwater; al contrario, nella campagna elettorale si mostrò pacato e ragionevole, riuscendo ad attrarre sia l’opinione pubblica conservatrice e fondamentalista che quella moderata. Nel giro di un quindicennio un effetto del successo di Reagan fu l’emarginazione nel Partito repubblicano della componente moderata e il divenire normalità di quello che tra gli anni ‘50 e ‘60 Richard Hofstadter definiva pseudoconservatorismo, caratterizzato dallo stile paranoide in politica2. Per i Repubblicani Reagan rimane un eroe, ma oggi egli apparirebbe come un moderato incline al compromesso. Donald Trump è un sottoprodotto di questo processo.
Non che ai tempi dell’ascesa di Reagan al potere mancassero preoccupazione e passione nella sinistra, ma tutto sommato l’analisi era più controllata, più ponderata. Di Reagan non si vedeva solo lo stile di grande comunicatore - non era forse un ex attore? - ma anche il culmine della southern strategy, di cambiamenti strutturali e territoriali del capitalismo statunitense3, nell’economia mondiale e nei rapporti di forza tra le classi.
La spettacolarizzazione mediatica ha fatto enormi progressi e ora le sue luci ingigantiscono sul palcoscenico politico le immagini di attori umanamente e intellettualmente mediocri, astuti naviganti ma poveri di idee e di ideali; e penso che in questo campo la politica europea - quella italiana in particolare - sia da tempo impegnata a dimostrare perversamente il vantaggio di cui può godere l’«ultimo arrivato».
Trump è a suo modo un «fenomeno» e grandi sono i poteri del «Potus», del President of the United States. Tuttavia egli resta «solo» l’esponente politico del più ricco e potente capitalismo del mondo, la cui economia si estende ben oltre i confini nazionali, e di un gigantesco insieme di istituzioni, apparati burocratici, reti politiche, di uno Stato federale e liberale: si tratta di un formidabile insieme di forze che delimita i parametri d’azione del Presidente. Del personaggio va colta la particolarità dell’immagine spettacolare, ma anche i motivi per cui non rappresenta affatto una rottura dell’ordine politico statunitense, un nuovo regime politico o un nuovo regime d’accumulazione.
Ovviamente ho presente gli atti del presidente Trump, gli executives orders, i memorandum ecc. Qui però non intendo entrare più di tanto nel merito degli atti. Mi propongo di trattare un argomento preliminare: le interpretazioni del fenomeno Trump.

2. Donald Trump come vedette della società dello spettacolo
Il personaggio pubblico Donald Trump è innanzitutto una vedette della società dello spettacolo; dello spettacolo come fatto sociale totale, non come àmbito particolare di una società nazionale; per società dello spettacolo intendo la società mondiale contemporanea, dominata da una specifica configurazione storica del capitalismo e dalle sue contraddizioni4. È uno spettacolo in cui si recitano parti diverse su palchi distinti, le cui scene possono apparire desincronizzate, le une barbaramente arcaiche e le altre futuristicamente postmoderne. Tuttavia si tratta di un’unica società, i cui apparenti anacronismi sono parte di una totalità che continua e trasforma la struttura spazio-temporale di base del capitalismo mondiale: lo sviluppo ineguale e combinato5. In questa prospettiva Osama bin Laden, Donald Trump e Vladimir Putin sono vedettes del medesimo spettacolo mondiale, potenziato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa.
La vedette è un’immagine di successo creata nel e dal potere: successo che nel caso del Presidente eletto Donald Trump si misura in voti e nell’accesso alle leve del potere supremo degli Stati Uniti. Tuttavia la vedette non è, propriamente parlando, un’individualità.
I discorsi e la gestualità di Trump trasmettono deliberatamente un messaggio politico, ma non sono utili per sondare le profondità della psiche della vedette. Non ha senso psicoanalizzare un soggetto i cui discorsi sono scritti da altri - esperti di marketing - e i cui gesti sono deliberatamente tesi a trasmettere l’immagine di un uomo lontano dalle buone maniere e dai compromessi dietro le quinte dell’élite politica e culturale. Questa figura può invece essere intesa come un’allegoria, l’espressione condensata di forze che comprendono e trascendono la sua umana singolarità.
Di Trump si può allora dire che egli è sintesi compiuta del capitalismo contemporaneo, che eleva a spettacolo i flussi finanziari e nel quale la spettacolarizzazione è un ingrediente necessario dell’inflazione dei titoli finanziari e della speculazione a credito su virtuali rendimenti futuri.
Come businessman, Donald Trump è espressione dello sviluppo della logica del settore emblematico di questo capitalismo: quello che negli Stati Uniti è definito «fire» - finance, insurance, and real estate - ovvero finanza, assicurazioni e immobiliare. È stato un agente di alto livello dell’intreccio fra speculazione immobiliare e credito bancario, che ha costruito ad arte la propria immagine per assurgere al ruolo di vedette conducendo operazioni spettacolari oltre che redditizie, ma con eccezioni importanti. Negli stessi brillanti anni ‘80 reaganiani, quelli degli yuppies (young urban professionals), dei titoli spazzatura e degli spezzatini finanziari, il costruttore Trump fece uno strumento commerciale del proprio nome e della narcisistica ostentazione del suo stile di vita, popolarizzato da rotocalchi e trasmissioni come Lifestyles of the Rich and Famous. Acquistò una dimora storica di 118 camere a Mar-a-Lago in Florida - costruita negli anni ‘20 per ospitare i presidenti statunitensi e gli ospiti stranieri di alto rango - un mega-yacht di 85 metri, un jet privato e una lunga sfilza di edifici tutti battezzati col nome Trump, di cui il Trump Tower è il più noto oltre che il luogo della sua epifania politica, della decisione di vendere la propria immagine anche nel mercato elettorale.
Ad Atlantic City Trump costruì o acquistò diversi casinò: Trump Plaza, Trump Castle e il più costoso al mondo, il Trump Taj Mahal, nel cui nome si fondono in un’evocazione favolosa il padrone, il denaro e il fascino dell’esotico. Ovviamente il Trump Taj Mahal è un pastiche postmodernista che non ha nulla a che fare con l’autentico. Questo interesse per i casinò è sintomatico: il casinò è il perfetto emblema del casino capitalism - denaro, lusso, effimero, credito e titoli spazzatura - ma ha anche i difetti di quest’ultimo: azzardo e calcolo del rischio, spettacolarizzazione del flusso di denaro e incertezza, trionfo e caduta tra violente oscillazioni. A un certo momento, ad esempio, quando al boom subentra la recessione, imprese poco redditizie - oppure avviate o acquistate con finanziamenti che speculano su profitti virtuali - possono non riuscire a far fronte ai debiti. Ciò è ancor più vero per quella combinazione di spettacolo, intrattenimento, speculazione finanziaria e immobiliare prediletta dal businessman Trump. Ragion per cui diverse delle sue imprese più spettacolari non sfuggirono alla dichiarazione di bancarotta: i suoi casinò (nei primi anni ’90), la società Trump Hotels and Casino Resorts (nel 2004) e la Trump Entertainment Resorts (nel 2009), come era stata ridenominata la precedente; dovette cedere anche la Trump Airlines, in preda ai debiti.
Risultati non proprio entusiasmanti. Tuttavia Trump riuscì a ridurre i danni accordandosi con i creditori, cedendo consistenti porzioni dei pacchetti azionari delle imprese in questione e accettando posizioni onorifiche: la bancarotta di diverse sue operazioni non comportò quella personale di Donald Trump, né della sua immagine. A questi non si applicò la famosa frase you’re fired! con cui proclamava il fallimento dei partecipanti allo show televisivo The Apprentice. L’abilità di Trump consistette nella separazione della sua immagine, come rappresentazione del casino capitalism, dalla sua realtà. Egli era già una vedette, un nome dotato del valore d’uso di convertirsi in denaro, quindi in grado di attrarre investitori nonostante la bancarotta di alcune sue imprese. Era un autoproclamatosi artista degli affari, capace di minacciare una causa legale a chi lo qualificava come un semplice milionario - invece che miliardario - e di narrare le sue avventure d’affari e d’amore in modo autocelebrativo in libri quali Trump: surviving at the top (1990) e Trump: the art of the comeback (1997). E poiché, come gli affari, l’amore può essere rischiosamente costoso, specialmente quando finisce e si è ricchi e famosi, il consiglio di Trump è di essere previdenti e di garantirsi dalla bancarotta amorosa con adeguato contratto: anche questa un’arte in cui pare eccellere, come s’intende dal titolo di un capitolo di Trump: the art of the comeback: «The art of the prenup: the engagement wring», dove prenup sta per prenuptial agreement.
In Trump il concreto dell’individualità umana si trasfigura nell’immagine del denaro che produce denaro: Trump è un brand vendibile per alimentare lo spettacolo sociale. Ed è esattamente questo che egli fece - ancor più e meglio di prima - a partire dagli anni ‘90. La vedette del casino capitalism ascese a vette più alte in termini di notorietà, aprendosi la via alla audience più ampia, quella degli spettatori-elettori.
Ronald Reagan era stato un attore mediocre, emerso come oratore politico per la destra del Partito repubblicano nella campagna presidenziale di Barry Goldwater; e quando Arnold Schwarzenegger fu eletto governatore della California egli era ancora una star cinematografica, la prima ad assurgere a un importante ruolo politico di governo. È naturale che nella società dello spettacolo il cinema e la televisione siano canali per una rapida carriera politica. Anche se, in Italia, Berlusconi era proprietario di un impero televisivo, ma non una star televisiva. Donald Trump è invece una vera e propria star televisiva ed è la prima fra queste ad assurgere al massimo livello di una grande potenza. Il successo televisivo di Trump non era quello di una vedette politica, ma dell’immagine dell’affarista protagonista e giudice di un game show, The Apprentice, trasmesso dalla rete NBC per quattordici stagioni a partire dal 2004. Trump aveva già la sua notorietà ma, come egli giustamente notò, avere una audience televisiva di 20 milioni di persone (nella prima stagione) significa un salto di qualità. Una porta aperta per giocare in proprio, che fu già tentato di attraversare in vista delle elezioni presidenziali del 2000.
Ma il suo tempo non era ancora arrivato.

3. La psicopatologia politica e l’impossibile psicoanalisi di Donald Trump
Maschilista, razzista, nazionalista, militarista, incline al bullismo, all’insulto, al sadismo - e ancora, demagogo, mentitore e facitore di bullshit (ovvero di insensate «esternazioni» verbali in cui sembra credere), narcisista, paranoide, necrofilo, megalomane, fascistoide: gli aggettivi non mancano nella stampa statunitense e internazionale, e la stessa salute mentale di Trump è stata più volte messa seriamente in discussione facendo ricorso a un’ampia gamma di termini presi a prestito dalla psicopatologia. All’inizio del 2017 lo psichiatra John Gartner ha lanciato una petizione agli operatori del settore per chiedere la rimozione di Trump in base all’articolo 4 del XXV emendamento alla Costituzione (del 1972), in quanto psichicamente incapace di esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio6. A quanto pare la petizione è stata firmata da almeno 48 mila persone; non so quanti siano psichiatri o psicologi, ma se tali fossero anche una piccola frazione dei firmatari, il dato sarebbe inquietante.
La Trump Tower di New York City © Mark Lennihan
Sulla psicologia del Presidente esiste una letteratura che mi pare sia già più ampia di quella su altri suoi predecessori. Dallo stile di vita basato sul consumo ostentativo ai libri, dal decennio da showman come maestro di The Apprentice ai messaggi di Twitter e ai discorsi nelle campagne per la nomination e poi per la presidenza, è stata la stessa vedette a fornire abbondante materiale: è il modo con cui ha deliberatamente costruito l’immagine di se stesso. E le valutazioni sono convergenti. Nel modo più sintetico, la tesi ricorrente è che Donald Trump mostra tutti i nove sintomi caratteristici del disordine narcisistico della personalità segnalati dal Diagnostic and statistical manual of mental disorders dell’American Psychiatric Association: un senso grandioso della propria importanza e l’esagerata magnificazione del proprio talento; fantasie di un successo senza limiti sul potere, sulla bellezza o sull’amore ideale; la convinzione di essere unico, speciale; l’esigere grande ammirazione; l’irragionevole aspettativa di uno speciale trattamento di favore e che gli altri si conformino automaticamente alle sue aspettative; l’utilizzare il prossimo per i propri fini; assenza di empatia: non disponibilità a riconoscere o a identificarsi con i sentimenti e le esigenze degli altri; provare spesso invidia e credere di essere invidiato dagli altri; atteggiamenti arroganti e superbi7. Questo tipo di disturbi comporta una estrema sensibilità alle critiche, alle quali si risponde col disprezzo, la rabbia e il duro contrattacco; il senso di grandiosità ne è il tratto più caratteristico, distinguendosi dal disturbo istrionico per l’eccesso di orgoglio e l’assenza di empatia; si distingue inoltre dai disturbi della personalità sia borderline che istrionica per la pretesa che l’attenzione si esprima in ammirazione, e si differenzia dal disturbo ossessivo-compulsivo per la mancanza di autocritica e la tendenza a credere di aver raggiunto la perfezione.
Sigmund Freud, Jacques Lacan, Erich Fromm, Wilhelm Reich e Theodor Adorno sono stati scomodati per spiegare come quella di Donald Trump sia una personalità disturbata, autoritaria, incline al fascismo, pericolosa e inadatta a ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti. E non si tratta solo di propaganda elettorale a favore di Hillary Clinton. Robert Samuels, ad esempio, è duro anche nei confronti di Hillary Clinton e degli intellettuali liberali progressisti, perché ritiene che il loro atteggiarsi a una sorta di Super-io collettivo li renda intolleranti nei confronti di chi critica le politiche neoliberali e gli associati disastri sociali. Ciò perché, condividendo con la destra la necessità di ridurre il deficit pubblico e le spese per l’assistenza sociale, anche i New Democrats come la coppia Clinton tendono a colpevolizzare le vittime del sistema. Samuels critica in modo convincente anche lo pseudosocialismo di Bernie Sanders, il suo ricorso a una retorica evocativa che in sostanza nutre a sinistra lo stesso populismo emozionale alimentato a destra da Trump, mascherando con ciò una linea moderata orientata sul passato e incapace di fare i conti con la realtà del capitalismo contemporaneo8.
Questo però non impedisce a Samuels, come ad altri, di assumere che Trump rappresenti una «nuova forma di fascismo in una società neoliberale». E per Douglas Kellner «certamente Trump non è Hitler e i suoi seguaci non sono tecnicamente fascisti, ma io credo che possiamo usare i termini populismo autoritario o neofascismo per spiegare Trump e i suoi sostenitori»9. Come tanti altri, non avendo chiaro cosa sia il populismo Kellner lo sovrappone al fascismo. Cito, fra altri possibili, un illustre esempio di destra: Robert Kagan, studioso di politica estera che può annoverarsi nell’eterogenea costellazione dei neoconservatori, propone un’interpretazione del fascismo e di Trump essenzialmente centrata sulla psicologia e, si direbbe, sull’ipnosi dei seguaci da parte dell’uomo forte. L’incubo di Kagan è che si realizzi quanto i Padri fondatori della Repubblica più temevano: the mobocracy, il potere della massa sediziosa10.
Ho citato solo interpretazioni empiricamente documentate, teoricamente fondate, politicamente interessanti della personalità di Trump, tralasciando il gran numero di valutazioni polemiche e giornalistiche. Lavori come quelli di Roberts e Kellner hanno il pregio di stimolare la riflessione e di spingere alla critica dei meccanismi e delle forme della psicologia sociale, in particolare di forme che possono dirsi psicopoliticamente patologiche.
Il fenomeno Donald Trump è una contraddizione vivente a prima vista sconcertante: è un miliardario che ha costruito la propria immagine attraverso il consumo ostentativo, ma fa appello ai forgotten men e alle forgotten women della grigia quotidianeità; è un protagonista del casino capitalism della speculazione finanziario-immobiliare, ma promette di essere il più grande creatore di posti di lavoro; è un membro dei più alti livelli dell’élite che si presenta come nemica dell’establishment. Ed è proprio questa estrema contraddittorietà della relazione fra l’immagine della vedette e la posizione sociale di tanti suoi elettori che solleva interrogativi di più ampio respiro sulla società dello spettacolo e la postdemocrazia, anche oltre gli Stati Uniti. Trump è un paradosso che richiede l’analisi razionale dell’irrazionalità sociale e della calcolata e deliberata costruzione artificiale dell’immagine virtuale con l’intento di mobilitare pulsioni irrazionali, centrate sullo status - o ciò che si costruisce come tale - invece che su interessi materiali o di classe.
La contraddizione fra immagine e realtà non è certamente cosa nuova né peculiare degli Stati Uniti; e occorre anche fare attenzione a non ridurre l’analisi politica all’analisi della psicologia di un individuo. Il motivo, già accennato, è che Trump è una vedette della società dello spettacolo, quindi un’immagine costruita artificialmente. Le dichiarazioni e gli atteggiamenti arroganti, sessisti e razzisti che giustamente più urtano le sensibilità appaiono deliberatamente spontanei perché hanno uno scopo preciso: costruire l’immagine di un uomo «autentico», opposto all’élite liberal e diverso anche da quella del proprio partito. Non deve sorprendere: questo pseudopopulismo è il modo con cui può farsi strada un partito neonato o un personaggio che come Trump non ha mai svolto un incarico politico - il primo caso per un Presidente degli Stati Uniti. È qualcosa che conferisce forza alla propaganda elettorale e alle campagne d’immagine - a quanto pare fino a un certo punto - ma che non necessariamente trova specifica espressione nell’insieme delle politiche effettivamente adottate. I personaggi e i partiti pseudopopulisti sono essenzialmente opportunisti: i toni possono cambiare a seconda delle necessità.
Mussolini e Hitler erano figure moderne - del modernismo reazionario - i cui atteggiamenti esteriori esprimevano in una certa misura un’interiorità autentica, per quanto patologica potesse essere. Interpretando Adenoid Hynkel nel film Il grande dittatore (1940) Charlie Chaplin poteva ridicolizzare le reali fantasie di dominio mondiale di un individuo reale, Adolf Hitler. Ma nel mondo postmoderno della società dello spettacolo sviluppata, dell’integrale mercificazione della cultura e dei mezzi di comunicazione di massa, del marketing politico, abbiamo invece a che fare con immagini - più o meno riuscite - in cui l’artificio domina il reale. Non si può dire che l’immagine del personaggio sia semplicemente vuota: al contrario, siamo di fronte a una retorica che trasmette messaggi forti; ma non si può neanche dire che all’immagine trasmessa corrisponda la realtà psichica profonda di un individuo reale. Quando si psicoanalizzano comportamenti e discorsi di Trump si fa psicoanalisi della strategia comunicativa studiata a tavolino da un gruppo, non psicoanalisi di un individuo. Il che non significa che ciò sia privo d’interesse, ma occorre tener presente la distinzione, altrimenti si rischia di prendere lucciole per lanterne.
La vedette della società dello spettacolo costruisce la propria immagine come sintesi di tendenze reali del mondo esterno, fa dell’Io che interpreta un prodotto sociale. Il paradosso è che la specificità e il successo della vedette risiedono nel fatto che l’oggettività sociale è interiorizzata in modo così integrale che, nell’interpretare la sua parte, la vedette nega la propria umana individualità. Al modo dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, si può dire che il personaggio-vedette sia irrimediabilmente fissato nella sua forma così da arrestare il flusso della vita. Tuttavia nel mondo virtuale della società dello spettacolo viene meno la possibilità del contrasto drammatico fra attore e personaggio, non rimanendo come alternativa l’identificazione con la vedette oppure il rifiuto dello spettacolo, l’uscire dalla rappresentazione.
Quel che importa, allora, è ciò che la decostruzione dell’immagine della vedette può dirci del mondo esterno e delle pulsioni e motivazioni dei suoi sostenitori. Dunque l’analisi del comportamento di Trump non rivela tanto - né essenzialmente - il suo particolare inconscio, ma l’inconscio della società o, ancor meglio, di una sua componente.

4. Come movimento e come regime il populismo è cosa qualitativamente diversa dallo pseudopopulismo di Trump
Molto si è detto circa il populismo o «populismo autoritario» del Presidente, con ciò intendendo il rischio di una trasformazione qualitativa del sistema politico statunitense, dell’avvento di un nuovo regime politico - addirittura di tendenze fascistoidi. Le considerazioni che seguono sul populismo valgono a maggior ragione per la tesi del criptofascismo trumpiano.
Sul populismo oggi la confusione è massima: è diventato una vera e propria moda politologica, ragion per cui il termine è tanto iperinflazionato quanto, nonostante la sua apparente ovvietà, svuotato di significato. Mi facilito l’argomentazione osservando che nel discorso corrente il populismo viene ridotto soltanto a due dei sette diversi populismi della tipologia descrittiva di Margaret Canovan - in effetti a uno, perché vengono fusi. E per giunta si tratta delle categorie più discutibili e lontane da esperienze come quelle del populismo russo, dei farmers statunitensi, dell’America latina e di altri paesi in cui è ragionevole parlare di populismo come movimento - ancor prima che regime - contro le classi o le oligarchie dominanti, per lo più dipendenti dal capitale e da potenze straniere. È una semplificazione straordinaria, fuorviante e «interessata», nella quale l’aggiunta di «autoritario» o «reazionario» funge nello stesso tempo da ingiuria, esorcismo e da foglia di fico a copertura della complessiva trasformazione postdemocratica dei sistemi politici e di partito11.
Nell’uso prevalente il populismo viene fatto coincidere con le categorie del reactionary populism e del politicians’ populism della tipologia di Canovan. Il primo sfrutta la distanza fra le convinzioni dell’opinione pubblica progressista e colta e quelle del «popolino reazionario»: ne sono esempi George Wallace ed Enoch Powell; quanto al «populismo dei politici», esso consiste nell’uso di una vaga nozione di popolo per sfumare le divisioni politiche e massimizzare i voti dei partiti pigliatutto, oppure per porsi al di sopra dei partiti. Canovan cita come esempi de Gaulle e Jimmy Carter. Questa tipologia è una esplicita rinuncia alla spiegazione e alla concettualizzazione, in sostanza è una dichiarazione di bancarotta teorica di un certo approccio accademico, non l’unico possibile.
Fatto è che fenomeni vari, complessi e multidimensionali come le vicende dei populismi reali vengono ridotti alla sola dimensione di una strategia discorsiva, a un determinato modo retorico d’impiego della nozione «popolo». A questo si aggiunge il rapporto diretto fra il capo carismatico e i suoi seguaci, saltando le mediazioni partitiche e istituzionali anche in virtù dei nuovissimi mezzi di comunicazione e dei social networks.
Ciò è molto in linea con la postmoderna dissoluzione del rapporto sociale nel linguaggio e coerente con la logica della società dello spettacolo, ma significa anche buttare a mare la riflessione critica sui populismi reali, storici, sul populismo come mobilitazione sociale di massa e sul populismo come regime. In fondo a questa prospettiva anche lo sfruttamento e il potere cessano d’essere fatti obiettivi per risolversi nel linguaggio.
Ma per ora rimango al reactionary populism e al politicians’ populism. Si noti che Canovan giustamente non assimila queste categorie a nuovi regimi istituzionali. Si tratta infatti di strategie di propaganda elettorale che possono far leva su proposte reazionarie e argomenti demagogici, ma che rimangono interne a regimi liberali e non si propongono cambiamenti fondamentali dell’ordine politico (si potrebbe obiettare su de Gaulle, certo, ma resta il fatto che non si può definire fascista o dittatoriale o illiberale la Francia gollista). Per questa ragione ritengo assolutamente indispensabile distinguere queste categorie - che definisco come pseudopopulismo - dall’autentico populismo. Lo pseudopopulismo è un tratto caratteristico della postdemocrazia già vigente in tutti i paesi a capitalismo avanzato, non un nuovo regime politico e neanche una strategia peculiare della destra o dell’estrema destra: lo si trova in tutte le aree politiche. Le differenze risiedono nell’enfasi e in un insieme di condizioni che rendono più o meno plausibile, efficace e opportuno l’atteggiamento populista. Per cui l’iperinflazione del termine populismo non solo violenta la storia, ma offusca cause e dimensioni di un cambiamento dei sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato che ha già avuto luogo.
Torniamo a Trump, il cui populismo consisterebbe nella contrapposizione del popolo, evocato nel modo più vago, all’élite (culturale e politica); nell’esclusione dell’Altro dalla comunità - l’immigrato latino, la gioventù afroamericana, l’islamico - e nella sua criminalizzazione; nell’alimentare una visione manichea della società facendo leva sull’ansia e l’insicurezza, ma nello stesso tempo indicando la strada della riscossa e della riconquista del primato: make America great again! Il tutto espresso con un linguaggio diretto, semplice e soprattutto volgare.
I politologi americani - che tanto amano quantificare - potrebbero far notare che analizzando i discorsi dei candidati alla presidenza nella campagna elettorale del 2016, Hillary Clinton e Bernie Sanders hanno impiegato termini nazionalisti due volte più frequentemente dei Repubblicani; che Trump non ha mai usato espressioni come the American people, quanto invece our country; che la signora Clinton e Sanders costruivano il popolo attraverso elenchi di figure - i Repubblicani in modo più sintetico, mediante la dicotomia we-they; che Sanders risulta al primo posto quanto a «populismo economico» - riferendosi all’élite economica due volte più spesso di Hillary Clinton - e Trump e Ben Carson sono al primo posto quanto a «populismo politico» - riferendosi all’élite politica due volte più frequentemente di Sanders12. Oppure, stando a una ricerca su 2.406 discorsi di candidati alla presidenza fra il 1952 e il 1996, non solo «i tre decenni passati possono in effetti essere caratterizzati da uno Zeitgeist populista», ma quanto a discorsi populisti si nota che fra il 1972 e il 1992 furono i candidati democratici a superare - di molto - i repubblicani, che si presero però la rivincita nell’anno terminale dello studio, il 199613. E Michael Kazin, che al populismo statunitense ha dedicato un ampio lavoro storico, nel 1995 scrisse che «il populismo, il presunto discorso degli americani ordinari e apolitici, dagli anni ‘80 è diventato un deliberato progetto retorico», per cui i consulenti del marketing politico consigliano ai loro clienti di lodare working men e working women e la middle class, attaccando nello stesso tempo gli avversari perché favoriscono i ricchi14.
© Ron Galella
Insomma, la retorica pseudopopulista è tutt’altro che una novità. È una strategia discorsiva la cui credibilità dipende innanzitutto dal fatto che l’attore sia o appaia come un outsider: più lunga è la sua carriera politica, meno è credibile; più forti sono i segnali che marcano la sua differenza dall’élite, più è credibile; uno sfidante è più credibile di chi è in carica o appartiene al partito che governa; l’utilità dell’enfasi pseudopopulista varia con il pubblico a cui ci si rivolge, essendo meno opportuna con certe categorie sociali - gli imprenditori e i finanziatori, ad esempio - e in località dove è forte l’avversario; può variare con le circostanze della competizione partitica e le alleanze in atto o potenziali. Nel 1952, quindi, Eisenhower era credibile non solo come eroe di guerra, ma proprio perché non era un politico - oltre che essere un moderato che non si contrapponeva alle trasformazioni strutturali dell’epoca newdealista; nel 1992 Bill Clinton era un Governatore, ma tre presidenze repubblicane di seguito potevano farlo apparire come un outsider e conferire credibilità - aiutato da un quadro economico negativo - allo slogan Putting people first! Invece, per quanto potesse atteggiarsi, era scarsa a priori la credibilità pseudopopulista della signora Clinton, moglie di un Presidente e membro dell’amministrazione uscente di un Presidente di successo - un altro apparente outsider - che aveva in parte separato la propria immagine da quella del partito, come richiesto dalla logica pseudopopulista.

È bene non dimenticare che non solo Trump è diventato Presidente senza riscuotere la maggioranza dei voti popolari, ma che in percentuale sui voti validi i suoi risultati sono stati inferiori a quelli dei candidati repubblicani George W. Bush (nel 2000 e nel 2004) e Mitt Romney (nel 2012). E può essere interessante considerare anche i sondaggi Gallup: Trump risulta essere stato l’unico Presidente dal 1953 ad iniziare il mandato con un indice di gradimento inferiore al 50%, precisamente il 45% (i precedenti minimi del 51% furono quelli di Reagan nel 1981 e Bush padre nel 1989); nello stesso tempo è il Presidente ad aver iniziato il mandato con l’indice di disapprovazione di gran lunga superiore a qualsiasi altro dal 1953: il 45%; il precedente massimo spettava a G.W. Bush col 25% nel 2000 (la differenza tra i due indici è data da coloro che non esprimono un’opinione: assai pochi, anche in questo caso si tratta di un record). Alla data dell’11 giugno [2017] l’indice di gradimento del Presidente era al 37%, mantenendosi costantemente sotto il 40% da cinque settimane - un altro record - e l’indice di disapprovazione aveva raggiunto il 58%15.
Quelli precedenti non sono dati da sottovalutare perché la tendenza è chiara e può influenzare non solo le decisioni del Presidente ma anche dei congressisti repubblicani, che probabilmente non desiderano affondare insieme al loro capitano. Effettivamente il fatto che i giudizi sul lavoro dell’amministrazione siano più che mai polarizzati e che quelli degli elettori indipendenti su Trump tendano ad essere negativi non promette bene per i risultati dei candidati repubblicani nelle prossime elezioni di midterm.
Comunque non pare proprio che Trump goda della popolarità necessaria a costruire un regime di qualsiasi genere. L’impeachment è improbabile - però non impossibile se i Repubblicani perdessero la maggioranza al Congresso - ma intanto Trump è piuttosto occupato a difendere la presidenza: se i Democratici avranno la maggioranza al Congresso potranno restituire con gli interessi quanto i Repubblicani hanno fatto con Obama. Almeno sul piano interno, la possibilità di Trump di fare uso dei poteri della «presidenza imperiale» paiono limitati.

5. I contenuti del programma di Trump, per quel che conta, non sono qualitativamente nuovi: particolare è l’intensità con cui sono stati trasmessi
I contenuti della campagna di Trump sono peculiari al punto da meritare un’etichetta speciale? L’idea di una barriera al confine tra Stati Uniti e Messico non è del repubblicano Trump, ma del democratico Clinton. Neanche la deportazione degli immigrati illegali è una novità. Nel 1997, sotto Clinton, vennero superate per la prima volta in un secolo le 100 mila deportazioni in un anno (114.332, l’anno prima 69.680); sotto Bush Jr. furono 189.026 nel 2001 e 359.795 nel 2008; continuarono a crescere sotto Obama, fino al picco di 435.498 nel 201316. In tutto, durante la presidenza Obama, vennero deportati non meno di 2,5 milioni di clandestini. Al termine della sua presidenza Bush Jr. istituì il programma Secure Communities, ma fu Obama a svilupparlo; il programma rafforza la collaborazione fra le autorità di polizia locali, il Fbi e l’agenzia competente per le deportazioni, l’Immigration and Customs Enforcement (Ice), consentendo a questa l’accesso al database delle impronte digitali del Fbi. A causa dei problemi legali sorti nell’applicazione del programma, nel 2011 l’amministrazione Obama ne adottò uno nuovo con un approccio più garantistico, ma Trump ha ridato vita con ordine esecutivo al Secure Communities di Bush-Obama.
Esiste un problema statistico, perché mentre in precedenza la maggior parte delle persone fermate veniva semplicemente riportata in Messico - fatto registrato come voluntary return - da almeno sei presidenze la tendenza a deportare è in aumento, gli strumenti normativi e operativi esistono e sono stati potenziati da ciascun presidente. Nell’ottica di Trump si tratta di accelerare il processo, accrescere ulteriormente i mezzi e rivedere le priorità circa la deportazione - o semplicemente eliminarle.
Come su altre, anche sulla questione dell’immigrazione possono darsi punti di vista opposti sia tra i Repubblicani che tra i Democratici, oltre che fra i partiti. I Democratici possono opporsi al fenomeno migratorio perché alimenta uno strato di forza lavoro con salari molto bassi e senza diritti, contribuendo alla depressione della forza contrattuale dei sindacati; inversamente, possono puntare alla legalizzazione dei clandestini e all’estensione dei loro diritti. I Repubblicani, invece, possono enfatizzare i problemi culturali e della criminalità legati all’immigrazione, oppure essere favorevoli alla legalizzazione dei clandestini proprio per formalizzare la segmentazione del mercato del lavoro.
Nell’insieme, negli anni ‘90 i Repubblicani si spostarono decisamente su posizioni più conservatrici anche su questo tema, ma seguiti dai Democratici, abbastanza perché nell’opinione pubblica la questione non risultasse discriminante fra i due partiti; e in entrambi i partiti risultava forte l’ostilità verso gli immigrati, in particolare circa l’accesso ai servizi sociali17. Nel 2000 G.W. Bush ottenne il 35% del voto dei latinos e nel 2004 propose un piano che avrebbe legalizzato gli immigrati clandestini - consentendo loro di uscire ed entrare negli Usa senza il rischio della deportazione - a condizione che avessero un lavoro o una promessa in tal senso: un modo per regolarizzare lo sfruttamento della forza lavoro negandole però la cittadinanza, rafforzando nello stesso tempo i controlli alla frontiera. Nonostante l’insistenza di Bush, nel 2007 furono i congressisti repubblicani a far fallire il piano, probabilmente perché, di fronte alla caduta verticale del consenso per il Presidente, si preoccupavano di non scontentare la propria base elettorale. La polarizzazione degli orientamenti sull’immigrazione nell’elettorato dei due partiti si è sviluppata nel nuovo millennio, accelerando con la Grande Recessione e la campagna dei birthers contro il candidato Obama e il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti.

Quanto al «populismo» e al «nazionalismo economico», si può dire che la campagna di maggior successo che rientra in queste etichette sia stata condotta da Ronald Reagan negli anni ‘80, quando andava di moda prendere dimostrativamente a martellate registratori e computers importati dal Giappone: la lista delle misure protezionistiche di quell’amministrazione è lunga, e va dalle «restrizioni volontarie delle esportazioni» dell’acciaio giapponese, sudcoreano ed europeo, all’aumento delle tariffe e all’imposizione di quote su diversi prodotti. Inoltre le pressioni sul Giappone portarono all’accordo del Plaza Hotel del 1985 e alla rivalutazione dello yen e del marco, quindi alla crescita delle esportazioni statunitensi e al boom speculativo della finanza e dell’immobiliare in Giappone - finito assai male. Nell’economia politica internazionale gli annunci di Trump possono essere spettacolari, ma al momento non incidono sull’esistente né sembrano coerenti con le dimensioni della divisione internazionale del lavoro del capitalismo statunitense.
Per quanto riguarda la spesa pubblica e il ruolo dello Stato, ai fini del discorso che porto avanti sulla postdemocrazia e lo pseudopopulismo è utile questa valutazione di Pollin riguardo alla politica economica di Clinton e alla sua visione del governo:
«Ma, più importante di tutto, le cause del collasso del mercato azionario, degli scandali societari e della recessione furono il risultato di squilibri economici formatisi durante gli anni di Clinton. Clinton e i suoi sostenitori pretendevano di aver dato una nuova direzione alla politica economica - ciò che Clinton stesso definì una “terza via” fra “coloro che dicevano il governo fosse il nemico e coloro che dicevano il governo fosse la soluzione” - un governo dell’epoca dell’informazione che “deve essere più piccolo, meno burocratico, che deve essere fiscalmente disciplinato e focalizzato sul compito di catalizzare nuove idee”. Ma di fatto, sotto molti aspetti il governo di Clinton costituiva una convenzionale agenda di centro-destra, affine - come affermato una volta dallo stesso Clinton - a un atteggiamento repubblicano del tipo di Eisenhower aggiornato all’epoca del dopo Guerra Fredda. L’amministrazione di Clinton fu caratterizzata da tagli generalizzati e dalla riduzione della parte della spesa pubblica nella spesa totale dell’economia, da un entusiasmo non qualificato per il liberismo commerciale, da tiepidi, incoerenti sforzi di assistere i lavoratori nel mercato del lavoro e dalla deregolazione dei mercati finanziari»18.
Questo è l’atteggiamento che ci si può aspettare da un presidente del Partito democratico, tenendo comunque conto del fatto che nelle emergenze il capitale è sempre pronto a tornare sotto l’ala protettiva dello Stato, come dimostrano gli interventi salvifici degli anni ‘80 e ‘90, le prime misure di Bush Jr. nel 2008 e poi quelle di Obama. Eppure le condizioni obiettive per la revisione fondamentale dell’orientamento della politica economica e sociale esistente da quasi quattro decenni non sono mai state così favorevoli come nella prima amministrazione Obama, appunto che suscitò diffuse illusioni circa un nuovo New Deal. Certo, le posizioni dei Democratici e dei Repubblicani non sono le stesse, ma nel migliore dei casi le prospettive dei primi sono alla Eisenhower, in un contesto in cui «conservare» significa però restaurare le macerie dell’edificio, non mantenerlo integro senza allargarne le ali; mentre i Repubblicani si sono spostati verso quel genere di pseudoconservatorismo paranoide che considerava Eisenhower a dedicated, conscious agent of the Communist conspiracy - proprio per il suo conservatorismo moderato19.
Non esiste alcun motivo per cui la politica economica e sociale di Trump possa discostarsi dalla corrente prevalente da decenni. Quel che sembra intenzionato a fare è far valere in modo diretto e unilaterale il peso economico degli Stati Uniti sui partner commerciali. La prospettiva è la continuità del ciclo di espansione del credito-bolla speculativa, l’incentivazione del modello ad alto consumo di energia e delle modalità più devastanti dell’attività estrattiva, favori alle imprese più inquinanti, il sostegno alla tendenza antisindacale - con i sindacati già ridotti ai minimi termini, specialmente nel settore privato. La Trumponomics continuerà a far danni ai comuni cittadini e a girare il coltello nelle piaghe dei più bisognosi, ma pare una Reaganomics in ritardo e senza slancio, perché non esprime recenti trasformazioni strutturali del capitalismo statunitense - e men che mai può produrne di nuove.

Massari editore, 2012
Per il capitalismo statunitense e qualsiasi governo degli Stati Uniti è semplicemente impossibile qualcosa come l’isolazionismo nei rapporti economici e in politica estera. Le alternative semmai ricadono nella varietà, frequenza e importanza di combinazioni tra la decisione d’intervenire attivamente oppure scegliere il benign neglect - ovvero la deliberata non-decisione - e tra l’azione unilaterale oppure concordata con gli alleati. Giocando con i presidenti emblematici della tradizione americana, si può dire che nei rapporti con l’estero Trump abbia un atteggiamento jacksoniano - quello della grande deportazione degli amerindi - incarnazione della «spietatezza bellica americana», poco incline alla magnanimità, istintivamente protezionista, secondo una filosofia che «è spesso istintuale più che ideologica, è un approccio culturale che un individuo può anche non aver scelto intellettualmente, un insieme di credenze ed emozioni più che di idee»20. Oppure che Trump segua una linea alla Teddy Roosevelt - quello del «grande bastone» e del corollario alla dottrina Monroe, invece che dell’idealismo multilateralista di Woodrow Wilson. Sicuramente non è un jeffersoniano, ma questa non è una novità perché Thomas Jefferson è stato l’unico del suo genere. Probabilmente oggi Jefferson tornerebbe a ribadire che «l’albero della libertà deve essere rinvigorito di tanto in tanto con il sangue dei patrioti e dei tiranni. Esso ne rappresenta il concime naturale. La nostra Convenzione è stata troppo impressionata dall’insurrezione del Massachusetts»21. Insomma, si può dire che questo nuovo Presidente abbia la tendenza ad affermare in modo spiccio e unilaterale gli interessi più immediati del dominio statunitense: America First, appunto. Se è così, ad esempio, non vedo buone prospettive per l’America latina, in particolare per il «cortile di casa» caraibico.
È comunque risibile che un «Potus» possa venir meno ai vincoli imposti dalla posizione strutturale degli Stati Uniti nel sistema degli Stati, delle alleanze e nell’economia mondiale. Il punto è se gli interessi mondiali del capitalismo statunitense sono ben serviti oppure no da decisioni e non-decisioni eseguite in modo competente e con successo. Quali che siano i proclami elettorali e le trovate propagandistiche, questi sono i motivi di fondo della sostanziale continuità - certo con variazioni nella tattica, nelle priorità e nello stile - della politica estera statunitense.
Ricordate le promesse del premio Nobel per la Pace Barack Obama?
Un bizzarro segnale del degrado politico e intellettuale della sinistra è l’atteggiamento controcorrente di alcuni ambienti che su Trump hanno espresso giudizi più o meno positivi in quanto «amico» di Putin, fautore (presunto) di una politica estera più ragionevole rispetto alla signora Clinton, o perfino intenzionato a smantellare la Nato o a favorire la dissoluzione dell’Unione europea e/o dell’area dell’euro. Si tratta dello strascico dell’incondizionata fedeltà all’Unione Sovietica, del tempo in cui si poteva digerire l’accordo Hitler-Stalin come fattore di pace a fronte dei circoli guerrafondai delle potenze imperialistiche, ma poi subito buttare a mare l’imperialismo di fronte alla prevedibile invasione nazista. È buffo come questi circoli non si rendano conto che l’emblema della Russia è l’aquila a due teste e che l’imperialismo non è qualcosa che oggi c’è e domani no perché un presidente pare «amico» della Russia.

Di Trump non sono peculiari i temi e le proposte in sé, ma l’enfasi e l’intensità emotiva con cui li ha presentati, il particolare stile comunicativo e il fatto che infine, a differenza di Barry Goldwater e di George Wallace, un candidato dallo stile così sfacciato e volgare abbia potuto vincere - sia pur nel modo che è noto. Nella tipologia di Canovan, Trump rientra nella categoria del reactionary populism o del politicians’ populism. Ma a ben vedere ciò ne fa uno pseudopopulista, non un populista. Vediamo perché.

6. La questione fondamentale trascurata nei discorsi sul populismo o fascismo di Trump: lo stato della lotta fra le classi
I movimenti e i regimi populisti storici presentano notevoli differenze, ma per arrivare al nocciolo della questione invito a pensare ai casi limite della Rivoluzione messicana e della quasi rivoluzione in Bolivia nel 1952; ma anche la Rivoluzione cubana può rientrare - fino a un certo punto e come caso molto particolare - in questo argomento.
Ovviamente ciascun regime populista ha la sua particolare storia, ma tutti hanno in comune questo: non maturarono spontaneamente e tranquillamente come frutti sull’albero. Al contrario, di norma presupposto del regime fu un movimento - di contadini e operai, piccola borghesia e minatori, intellettuali e militari - che si batteva per la riforma agraria, per lavoro e salario dignitosi, per la libertà politica, per l’indipendenza nazionale. Il movimento popolare e populista non attaccava il potere dell’oligarchia economica e politica solo con una fiorita retorica o soltanto con il voto - ammesso che si potesse votare o che il suffragio non fosse censitario - ma con scioperi, manifestazioni, rivolte, insurrezioni, lotta armata. Il nuovo regime si formava perché la radicalizzazione del movimento di massa era stata incanalata e neutralizzata, se necessario repressa nelle sue avanguardie; giunto al potere il partito populista poteva creare o rinnovare l’élite, facendosi però portavoce del capitalismo nazionale. Tuttavia la legittimazione del regime e del partito populista veniva - o viene - dalla «rivoluzione», e a quella tradizione esso si richiamava - si richiama - per mantenere il consenso. Di solito con misure - realizzate più o meno male - come la riforma agraria, il suffragio universale, l’organizzazione sindacale burocratizzata, le nazionalizzazioni. Per cui, sia come movimento radicale di massa che come regime, il populismo - quello reale, storico - è cosa ben diversa dalle bande squadriste e dal regime fascista. L’ideologia populista era confusa ed eclettica, ma proprio perché scaturito da una lotta popolare suscettibile di radicalizzazione anticapitalistica, come regime e partito il populismo viveva una contraddizione interna che poteva portare alla scissione e alla formazione di una sinistra intenzionata a continuare la rivoluzione interrotta contro la borghesia interna e la dipendenza dall’imperialismo. Spesso invece i regimi populisti furono rovesciati da colpi di Stato e sostituiti da regimi militari fascistoidi.

A questo punto il lettore avrà compreso dove va a parare l’argomento: cosa hanno in comune Trump - o uno qualsiasi dei tanti cosiddetti populisti europei più o meno reazionari - con Emiliano Zapata, Pancho Villa, Sandino, Juan Lechín (il dirigente della Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia e della Central Obrera Boliviana, che disponevano di milizie armate notevoli e autonome) o Fidel Castro? Nulla. E non hanno niente in comune neanche con i regimi populisti. Perfino Juan Domingo Perón doveva il suo potere al sostegno dei lavoratori organizzati. Ma quel che è determinante è che il quadro dei rapporti fra regime e lavoratori e con frazioni della borghesia «nazionale» - con le misure di politica economica e sociale associate - non hanno niente a che vedere con il quadro di uno qualsiasi dei partiti cosiddetti populisti contemporanei. O con la politica dell’amministrazione Trump.

Lo pseudopopulismo di Trump va dall’alto verso il basso: è del tutto estraneo alle tensioni interne a un populismo borghese che intenda canalizzare la radicalizzazione della lotta di classe e delle insurrezioni popolari contro l’oligarchia economica e politica.
Il fatto che mi pare del tutto trascurato da chi, anche a sinistra, enfatizza la vittoria elettorale di Trump come il compimento o il serio pericolo che inizi un cambiamento sostanziale del regime politico statunitense in senso autoritario - pseudopopulistico, fascistoide, bonapartistico o come dir si voglia - è che la sua ascesa al potere non si è verificata in un contesto di intensificato scontro sociale, men che mai di scontro fra classi sociali.
Nemmeno può dirsi che la presidenza Trump segua una fase di conflittualità sociale e di minaccia all’ordine costituito; che egli, cioè, chiuda il cerchio della restaurazione dopo il punto di non ritorno dello scontro politico-sociale, con ciò intendendo il momento oltre il quale la mobilitazione di massa ha perso l’opportunità di sferrare un colpo decisivo al culmine della sua forza e, inversamente, è possibile una controffensiva della classe dominante. Per intendersi: anche durante la Resistenza europea al nazifascismo o nel 1968 la radicalizzazione politica di massa si fermò - per qualità e/o per dimensioni - prima che il sistema sociale capitalistico fosse messo in discussione.
In altri termini: non esiste negli Stati Uniti una situazione di scontro aperto o anche soltanto di stallo o di equilibro fra le classi tale da richiedere soluzioni eccezionali, quali il fascismo o il bonapartismo o il «populismo autoritario» (qualunque cosa si intenda con questo).

7. Trump come espressione della postdemocrazia
Il «fenomeno» Trump può invece spiegarsi nel quadro generale del regime postdemocratico, ora tipico di tutti i paesi a capitalismo avanzato.
Non è facile definire nella loro totalità - nelle loro relazioni dialettiche - le ambiguità e le contraddizioni della postdemocrazia22. È un regime che per definizione poggia sul degrado del concetto politico, sicché la confusione è grande. Si vede nel modo in cui si impiegano a sproposito termini come populismo, fascismo, bonapartismo, golpe (colpo di Stato), che pure hanno una loro storia, sia reale che teorica. L’impressione è che si usino iperboli e superficiali analogie imitando gli effetti speciali dello spettacolo mediatico.
Si vede anche nell’ampia diffusione di teorie complottistiche - sia particolari sia come visione d’insieme - che proliferano grazie al Web, ma che sono pure la spia del disagio psichico e del tentativo di razionalizzare una realtà alienata. Ne è un esempio la campagna scatenata contro Obama dai birthers - in particolare dal Tea Party - che sostenevano che egli non fosse nato cittadino statunitense e che quindi - per l’articolo 2 della Costituzione - non potesse candidarsi alla presidenza.

Il regime postdemocratico gioca molto sulla sua ambiguità, palese nel fatto che mentre la governabilità è esaltata sopra la rappresentanza partitica e il parlamentarismo, si pretende anche di esportare a mano armata la democrazia; o nel fatto che governi e caste politiche nazionali rinuncino volontariamente a parte della propria autonomia decisionale e quindi del libero esercizio della «sovranità popolare», sempre a sfavore dei diritti sociali dei comuni cittadini e dei lavoratori.
Parte integrante della postdemocrazia sono la convergenza programmatica dei partiti politici, il declino del ramo parlamentare, il degrado della funzione di rappresentanza, la spettacolarizzazione e personalizzazione della politica intorno alle vedettes.
La postdemocrazia non è un fatto solo statunitense - in modi diversi, l’Italia e la Russia ne sono casi esemplari - e non è neanche una forma fascisteggiante o riconducibile a un qualche tipo di stato d’eccezione. Al contrario, il regime postdemocratico è un regime liberale, deprivato della rappresentanza e della mediazione politica fra interessi di classe diversi che, per quanto squilibrata, parziale e temporanea, ha contraddistinto i sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato per un periodo relativamente breve, nell’insieme per alcuni decenni nel secondo dopoguerra. È il motivo per cui potevano dirsi liberaldemocratici.
Peter Mair, che non mi risulta abbia mai usato il termine, ma che al concetto di postdemocrazia ha dato un fondamentale contributo d’analisi lavorando sulla trasformazione dei partiti e dei sistemi di partito, fece un interessante confronto fra l’uso più comune del termine populismo - inteso semplicemente come strategia di mobilitazione elettorale contro le élite - e quella che definiva la «democrazia populista», in sostanza un altro nome per la postdemocrazia23. L’esempio analizzato era quello del Partito laburista di Tony Blair. Senza escludere la mobilitazione di protesta, Mair sosteneva che la «democrazia populista» fosse la tendenza destinata ad affermarsi. La sua peculiarità veniva individuata nella salvaguardia del costituzionalismo in un sistema caratterizzato dal declino della funzione di rappresentanza e di mobilitazione dei partiti, a cui corrisponde la dominanza delle loro funzioni procedurali e istituzionali, in particolare della selezione del personale politico. È importante l’osservazione che diversamente da Thatcher e Reagan, esplicitamente partigiani e sostenitori di un ben definito conservatorismo, la «terza via» di Blair è «deliberatamente formulata in termini non partigiani, presentandosi come una nuova sintesi al di sopra delle tradizionali divisioni fra sinistra e destra, in grado di unire tutte le parti dietro un approccio oggettivamente convalidato a cui non esiste una vera alternativa»24. In questa «democrazia senza partiti» (non nel senso letterale) diviene logico richiedere il consenso popolare, presentandosi non come «parte» ma come amministratori secondo criteri «obiettivi», rivolgendosi al popolo come un tutto indifferenziato: la legittimazione in un sistema depoliticizzato, in cui sono venute meno prospettive alternative. È il trionfo del «populismo dei politici» o pseudopopulismo.
Di questo pseudopopulismo Donald Trump è stato abile interprete. Egli non era affatto il più «ideologico» fra gli aspiranti alla nomination repubblicana - battuto sotto questo aspetto da Ted Cruz, che non era sostenuto dai dirigenti nazionali del partito. Questi ultimi appoggiavano semmai Jeb Bush e Marco Rubio, che però non avevano sufficienti consensi nella base degli attivisti. Trump ha fatto irruzione in un partito molto diviso, inizialmente con più di una dozzina di aspiranti candidati; nella campagna per la nomination si è presentato con l’immagine di un outsider, attaccando duramente i competitori e conquistandosi il sostegno degli attivisti. Aveva il vantaggio del denaro e ancor più di essere una vedette, tanto più che i suoi atteggiamenti e i suoi tweets erano utili sia a marcare la differenza dall’élite disposta al compromesso che a dominare il ciclo delle notizie.
Sappiamo come è andata, ma la strategia elettorale trumpiana non ha futuro. Può ricordare quella di Barry Goldwater nel 1964, applicata con successo da Nixon quattro anni dopo - con maggior oculatezza e nel contesto più «caldo» delle proteste contro la guerra in Vietnam, delle rivolte degli afroamericani, dell’esplodere dei nuovi movimenti e della controcultura. Adesso, invece, il Partito repubblicano si è alienato non solo il voto degli afroamericani ma anche quello dei latinos, il gruppo con la crescita demografica più forte, che può essere determinante per l’esito delle elezioni nei prossimi decenni. L’ostilità di molti dei «grandi» del Partito repubblicano verso Trump è giustificata.
© Drew Angerer
Vedremo cosa accadrà, ma intanto sottolineo che la postdemocrazia non è illiberale. Il punto è importante per la prognosi e la comprensione della dinamica dell’amministrazione Trump. Il nucleo del liberalismo è il costituzionalismo, la delimitazione dei poteri attraverso un sistema di checks and balances, di controlli e contrappesi, costituzionali e istituzionali, politici e giudiziari; è un sistema in cui si devono fare i conti anche con i mezzi di comunicazione di massa e l’opinione pubblica. Il fascismo e i regimi dittatoriali sono differenti dai regimi liberali proprio perché in questi casi la repressione del movimento operaio, del conflitto sociale e dell’opposizione politica si esprimono istituzionalmente nell’eliminazione reale del sistema di checks and balances e dei diritti politici elementari, nel bando dei partiti e delle organizzazioni della società civile, nell’eliminazione - formalizzata in legge, ma comunque reale nella prassi - delle garanzie giuridiche a difesa dei cittadini.
Ebbene, il costituzionalismo e il garantismo non godono affatto di buona salute; e negli Stati Uniti esiste da sempre il problema del rapporto fra potere presidenziale, da una parte, e poteri del Congresso e degli Stati federali, dall’altra. La notevole espansione dei poteri presidenziali è ben nota e ampiamente studiata e criticata; essa ha il suo culmine nella politica estera, ma non si limita affatto solo ad essa; ed era ben presente, ad esempio, anche durante le amministrazioni di Barack Obama.
Detto questo, il sistema di checks and balances continua ad esistere e a operare, con risultati alterni ma nondimeno reali. E si vede che la popolarità di Trump declina, mentre non mancano le proteste. In questo come in altri campi, gli Stati Uniti mostrano al più alto grado entrambe le facce della modernità capitalistica: da una parte la concentrazione del potere nella «presidenza imperiale», dall’altra la separazione dei poteri, che può realmente contrastare e limitare il potere presidenziale. Quando e in che misura questo accada dipende dall’orientamento prevalente al Congresso e dalla volontà politica di fare uso degli strumenti di cui dispone; ma è palese che l’amministrazione Trump dovrà muoversi in un quadro di forte resistenza sia istituzionale - perfino negli apparati di sicurezza - sia extraistituzionale.
Gli insulti al personaggio Trump sono comprensibili, ma agli occhi dei suoi sostenitori non fanno altro che ribadirne la pretesa estraneità al corrotto establishment liberal-progressista. Epiteti come «fascista!» e simili rivolti a Trump - o a Berlusconi o ad altri della stessa risma - sono solo apparentemente «estremisti». In effetti essi fanno confusione e mistificano la reale portata della trasformazione della statualità e dei sistemi di partito dei paesi a capitalismo avanzato, auspicando il ritorno a un tempo irrimediabilmente perduto e molto idealizzato.
Occorre liberarsi di questa nostalgia. Negli Stati Uniti si tratta di liberarsi della fascinazione esercitata dalla presidenza e dall’illusione che un presidente liberal e pseudopopulista possa risolvere i problemi per conto del popolo.

Bibliografia
Bonikowski, Bart-Gidron, Noam, «The populist style in American politics: presidential campaign discourse, 1952–1996», Social Forces, vol. 4, 2016
Brewer, Mark D.-Stonecash, Jeffrey M., Dynamics of American political parties, Cambridge University Press, New York 2009
Canovan, Margaret, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982
Crouch, Colin, Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003
Davis, Mike, «The new right’s road to power», New Left Review, I/128, 1981
— «The political economy of late-imperial America», New Left Review, I/143, 1984 [«L’economia politica dell’America tardoimperiale», Marx 101, n. 9/10, 1992]
— «Sortilegi e misteri della reaganeconomics», Metamorfosi, n. 1, 1986
— «Obama at Manassas», New Left Review, II/56, 2009
Debord, Guy-Ernest, La société du spectacle, Buchet-Castel, Paris 1967 [La società dello spettacolo, Massari ed., Bolsena 2002]
Dickinson, Matthew J., Bitter harvest: FDR, presidential power and the growth of the presidential branch, Cambridge University Press, New York 1996
Grover, William F.-Peschek, Joseph G., The unsustainable presidency: Clinton, Bush, Obama, and beyond, Palgrave Macmillan, New York 2014
Hendrickson, Ryan C., Obama at war: Congress and the imperial presidency, University Press of Kentucky, Lexington (KY) 2015
Hetherington, Marc J.-Weiler, Jonathan D., Authoritarianism and polarization in American politics, Cambridge University Press, New York 2009
Hofstadter, Richard, The paranoid style in American politics, and other essays, Alfred A. Knopf, New York 1965 [Harvard University Press, Cambridge (MA) 1996]
Kabaservice, Geoffrey M., Rule and ruin: the downfall of moderation and the destruction of the Republican Party, from Eisenhower to the Tea Party, Oxford University Press, Oxford/New York 2012
Kagan, Robert, «This is how fascism comes to America», The Washington Post, 18 maggio 2016
Kazin, Michael, The populist persuasion: an American history, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1998 (ed. riveduta e corretta)
Kellner, Douglas, American nightmare: Donald Trump, media spectacle, and authoritarian populism, Sense Publishers, Rotterdam/Boston 2016
Mair, Peter, «Populist democracy vs party democracy», in Democracies and the populist challenge, a cura di Yves Mény e Yves Surel, Palgrave, Basingstoke/New York 2002
Mead, Walter Russell, Special providence: American foreign policy and how it changed the world, Alfred A. Knopf, New York 2001 [Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Garzanti, Milano 2002]
Nobile, Michele, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari ed., Bolsena 2006
Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012
— «La società dello spettacolo e la critica rivoluzionaria», in Debord e il Situazionismo revisited, a cura di Antonio Saccoccio, Massari ed., Bolsena 2015
Oliver, J. Eric-Rahn, Wendy M., «Rise of the Trumpenvolk: populism in the 2016 election», The Annals of the American Academy of Political and Social Science, vol. 667, n. 1, 2016
Perelman, Michael, «Sado-monetarism: the role of the Federal Reserve system in keeping wages low», Monthly Review, vol. 63, n. 11, 2012
Pollin, Robert, Contours of descent: U.S. economic fractures and the landscape of global austerity, Verso, London/New York 2005 (2ª ed. aggiornata)
Relyea, Harold C., The Executive Office of the President: an historical overview, Congressional Research Service, Report for the Congress, 2008
Riley, Dylan, «American brumaire?», New Left Review, II/103, 2017
Rudalevige, Andrew, The new imperial presidency: renewing presidential power after Watergate, University of Michigan Press, Ann Arbor (MI) 2005
Shapiro, Marc, Trump this! The life and times of Donald Trump: an unauthorized biography, Riverdale Avenue Books, Riverdale (NY) 2016
Schlesinger Jr., Arthur M., The imperial presidency, Houghton Mifflin, Boston 1973 [La presidenza imperiale, Edizioni di Comunità, Milano 1980]


1 L’espansione dei poteri presidenziali si fonda su un’interpretazione estensiva della missione attribuita dalla Costituzione al potere esecutivo; trova la sua origine e la sua massima espressione nel ruolo del Presidente come commander-in-chief, ma investe tutti gli àmbiti dell’amministrazione. Operativamente la «presidenza imperiale» si basa sulla crescita quantitativa e sul proliferare degli uffici e dei consigli del White House Office e dell’Executive Office del Presidente a partire da Franklin Delano Roosevelt: questo passò da 1.400 dipendenti nel 1952 a 5.600 nel 1972. Si pensi che nel 1857 il Congresso concesse al Presidente un segretario privato e altri due, più un assistente amministrativo nel 1929. Il classico «presidenza imperiale» è The imperial presidency di Arthur M. Schlesinger Jr., pubblicato nel 1973. Andrew Rudalevige ne ha tracciato la storia, l’utilizzo dei diversi strumenti, la vicenda del relativo e temporaneo declino della «presidenza imperiale» dopo lo scandalo Watergate e poi della sua brillante ripresa. Per i presidenti più recenti: William F. Grover-Joseph Peschek, The unsustainable presidency: Clinton, Bush, Obama, and beyond, Palgrave Macmillan, New York 2014; Ryan C. Hendrickson, Obama at war: Congress and the imperial presidency, University Press of Kentucky, Lexington (KY) 2015.
Sul braccio presidenziale: Harold C. Relyea, The Executive Office of the President: an historical overview, Congressional Research Service, Report for the Congress, 2008; Matthew J. Dickinson, Bitter harvest: FDR, presidential power and the growth of the presidential branch, Cambridge University Press, New York 1996.
2 Il riferimento è ai saggi di Richard Hofstadter - direi ora più che mai influenti, benché non sempre se ne abbia consapevolezza - in The paranoid style in American politics, and other essays, Alfred A. Knopf, New York 1965. Il declino dei Repubblicani moderati è dolentemente tracciato da Geoffrey M. Kabaservice in Rule and ruin: the downfall of moderation and the destruction of the Republican Party, from Eisenhower to the Tea Party, Oxford University Press, Oxford/New York 2012.
3 Dal XIX secolo fino al 1964 il Partito democratico mantenne ininterrottamente l’egemonia elettorale nel Sud segregazionista, la base della destra del Partito che collaborava con i Repubblicani nella conservative coalition; tuttavia erano i Repubblicani a porsi come eredi di Lincoln e ad avere una posizione complessivamente più avanzata dei Democratici sul problema razziale. Fu Barry Goldwater, il candidato repubblicano nel 1964, al tempo della lotta degli afroamericani contro la segregazione razziale e dell’approvazione del Civil Rights Act, che per primo afferrò la possibilità di sfruttare la contraddizione razziale interna alla coalizione newdealista per sfondare tra i bianchi della fortezza meridionale del Partito democratico. Ottenne un certo successo nel Sud, ma venne sepolto da una valanga nazionale di voti per Lyndon B. Johnson, 43 milioni contro 27. La southern strategy venne realizzata con successo da Nixon nel 1968, e infine nel 2000 la mappa elettorale del voto per le presidenziali fu esattamente opposta a quella delle storiche elezioni del 1896. Nel 1969 Kevin P. Phillips, un giovane studioso che lavorava nella squadra di Nixon, analizzò dettagliatamente la southern strategy in un libro: The emerging Republican majority. Come buon esempio d’interpretazione dell’ascesa di Reagan si vedano: Mike Davis, «The new right’s road to power», New Left Review, I/128, 1981, gli altri saggi di Davis citati nella bibliografia e quelli in Metamorfosi, n. 1, 1986.
4 Guy-Ernest Debord, La società dello spettacolo, a cura di Pasquale Stanziale, Massari ed., Bolsena 2002; rinvio alla serie di libri intitolata «Punto della situazione» di Massari editore e a «La società dello spettacolo e la critica rivoluzionaria», di chi scrive, in Debord e il Situazionismo revisited, a cura di Antonio Saccoccio, Massari ed., Bolsena 2015.
5 Per la critica della nozione di globalizzazione e per la discussione intorno ai concetti di imperialismo e di sviluppo ineguale e combinato rimando al mio Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari ed., Bolsena 2006.
6 Perché il Presidente sia rimosso in base a questo emendamento occorre una dichiarazione scritta da parte del Vicepresidente e della «maggioranza dei principal officers dei dipartimenti dell’esecutivo, o di un altro organo che il Congresso possa indicare per legge», nonché l’approvazione da parte dei due terzi dei membri delle due Camere. Cfr. il testo della petizione: «Mental health professionals declare Trump is mentally ill and must be removed», Change.org, 30 gennaio 2017; un’intervista a Gartner: «Dr. John Gartner: “We have a duty to warn the world about Donald Trump”», Change.org, 22 marzo 2017.
7 American Psychiatric Association, Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5), American Psychiatric Association Publishing, Washington, D.C. 2013, pp. 669-72. Per le menzogne e non-verità di Trump, giorno per giorno fino al 21 giugno: David Leonhardt-Stuart A. Thompson, «Trump’s lies», The New York Times, 23 giugno 2017.
8 Robert Samuels, Psychoanalyzing the left and right after Donald Trump: conservatism, liberalism, and neoliberal populisms, Palgrave Macmillan, New York 2016.
9 Douglas Kellner, American nightmare: Donald Trump, media spectacle, and authoritarian populism, Sense Publishers, Rotterdam/Boston 2016, p. 20.
10 Robert Kagan, «This is how fascism comes to America», The Washington Post, 18 maggio 2016.
11 Margaret Canovan, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982. Queste le varietà o categorie della tipologia di Canovan: populismo dei farmers; degli intellettuali rivoluzionari; dei contadini; dittatura populista; democrazia populista; populismo reazionario; populismo dei politici.
12 J. Eric Oliver-Wendy M. Rahn, «Rise of the Trumpenvolk: populism in the 2016 election», The Annals of the American Academy of Political and Social Science, vol. 667, n. 1, 2016.
13 Bart Bonikowski-Noam Gidron, «The populist style in American politics: presidential campaign discourse, 1952–1996», Social Forces, vol. 4, 2016.
14 Michael Kazin, The populist persuasion: an American history, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1998 (ed. riveduta e corretta), p. 272.
15 Cfr. Lydia Saad, «Trump sets new low point for inaugural approval rating», Gallup.Com, 23 gennaio 2017; Frank Newport, «Trump approval edges down to new weekly low», Gallup.Com, 13 giugno 2017.
16 Al riguardo si veda, sul sito ufficiale del Department of Homeland Security: «Table 39. Aliens removed or returned: fiscal years 1892 to 2014», in 2014 yearbook of immigration statistics, agosto 2016.
17 Cfr. la discussione nel capitolo 8 - «Immigration: a reinforcing cleavage that now constrains the Republican Party (GOP)» - del volume di Marc J. Hetherington e Jonathan D. Weiler Authoritarianism and polarization in American politics, Cambridge University Press, New York 2009.
18 Robert Pollin, Contours of descent: U.S. economic fractures and the landscape of global austerity, Verso, London/New York 2005 (2ª ed. aggiornata), pp. 5-6.
19 Questa era l’esilarante definizione di Eisenhower offerta da Robert H.W. Welch Jr., fondatore nel 1958 della John Birch Society, citato da Richard Hofstadter in The paranoid style in American politics, and other essays, cit., p. 28.
20 Così secondo Walter Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Garzanti, Milano 2002, p. 285.
21 Cit. dalla lettera di Thomas Jefferson a William Stephens Smith, 13 novembre 1787, mentre era ambasciatore a Parigi - in Thomas Jefferson, Political writings, a cura di Joyce Appleby e Terence Ball, Cambridge University Press, New York 1999, p. 110. Mead si sforza di delineare una tradizione jeffersoniana in politica estera, ma non mi convince. Jefferson incarna le contraddizioni o i paradossi della Rivoluzione americana, ma era lontano dal neomercantilismo e dal genere di «realismo» geopolitico di Alexander Hamilton, intenzionato a promuovere l’oligarchia commerciale, un esercito regolare e una flotta d’alto mare legandosi alla Gran Bretagna. È vero che con l’acquisto della Louisiana - appena tornata a Napoleone, ma per lui rivelatasi inservibile - realizzò la più ampia espansione territoriale degli Stati Uniti, ma le sue motivazioni erano molto diverse da quelle dell’imperialismo mercantile o dei piantatori schiavisti: al contrario era mosso dalla visione di una Repubblica di farmers.
22 A tal fine rimando a Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003 e alla seconda parte del mio Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012.
23 Peter Mair, «Populist democracy vs party democracy», in Democracies and the populist challenge, a cura di Yves Mény e Yves Surel, Palgrave, Basingstoke/New York 2002.
24 Ibid., p. 96.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.